La via Calogero Montante da qualche settimana non esiste più. Era spuntata all’improvviso una decina di anni fa, in mezzo ad altre strade che portano il nome di siciliani uccisi dalla mafia. Da una parte confinava con via don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio assassinato da Gaspare Spatuzza nel settembre del 1993, e dall’altra con via Lillo Zucchetto, poliziotto caduto a Palermo per mano dei boss nel novembre del 1982. Un intruso fra le vittime di Cosa nostra, perché Calogero Montante per sua fortuna è morto nel suo letto e in vita non si era mai distinto neanche per qualche azione degna di riconoscimento contro il crimine.

Era solo e semplicemente il nonno omonimo del cavaliere Calogero Montante detto Antonello, vicepresidente di Confindustria con delega alla legalità, presidente di tutte le camere di commercio dell’isola, padrone assoluto della regione siciliana. Dopo la sua condanna a 14 anni e un tortuoso percorso burocratico fra ministero dell’Interno e prefettura, soprintendenza ai monumenti e società per la storia patria, a metà maggio gli operai dell’ufficio toponomastica del comune di Caltanissetta hanno smontato quattordici insegne stradali e cancellato abuso e leggenda.

E cioè quella di un nonno imprenditore che, alla vigilia della Prima guerra mondiale, aveva aperto una fabbrica di biciclette nella Sicilia più profonda per equipaggiare di mezzi a due ruote «i reparti mobili dell’Arma dei carabinieri, della pubblica sicurezza, divenendo fornitore anche delle case reali».

Una storia inventata di sana pianta dal celebre nipote per ritoccare le origini del ceppo di appartenenza, ma anche per piazzare la strada dedicata al nonno in un contesto strategico per le sue mire. La fu via Calogero Montante ricadeva infatti in un’area specialissima, caso unico in Europa e forse anche nel mondo, una vasta estensione di terra pomposamente battezzata “zona franca della legalità” con tanto di cartello di benvenuto agli automobilisti di passaggio.

Prima di spiegare cos’è questa misteriosa zona franca, è necessario ricordare che oggi i nisseni – così si chiamano gli abitanti di Caltanissetta – quando sentono anche solo sussurrare la parola “legalità” ripiombano nel terrore per l’uso che di quel vocabolo n’è stato fatto dalla “anonima Montante & C.”, agitato come arma per far fuori oppositori di ogni genere macchiandoli di mafiosità o accusandoli di altri orrendi delitti. Le peggiori nefandezze si sono consumate in Sicilia dal 2010 in poi sempre a favore di una fantomatica “lotta legalitaria” e, non per niente, a Caltanissetta c’è quella “zona franca della legalità” ma c’è anche “il palazzo della legalità” e la città stessa è stata insignita del titolo di “capitale della legalità”.

Un incubo firmato Montante. E sottoscritto da presidenti di corte di Appello, procuratori generali, prefetti, questori, sindaci, ministri e presidenti della regione. Una grande impostura che ha portato al potere l’antimafia confindustriale, inganno dopo inganno.

La zona franca della legalità

La “zona franca della legalità” è nata il 2 maggio del 2012 con decreto del governatore della Sicilia Raffaele Lombardo, che qualche settimana prima era stato rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. E in seguito è stata finanziata con una cinquantina di milioni di euro dal governatore Rosario Crocetta, che in futuro sarà accusato di associazione a delinquere e corruzione. Due campionissimi di legalità. Regista dell’operazione Calogero Montante (che nel frattempo è riuscito a infilarvi la via in onore del nonno) con lo scopo di offrire benefici fiscali “a tutte quelle aziende che si oppongono alle richieste estorsive della criminalità organizzata”. Un’altra favola.

Con Calogero Montante e il suo socio Ivan Lo Bello, entrambi spalleggiati dal senatore Giuseppe Lumia, che si precipitavano in commissione parlamentare antimafia a glorificare la “rivoluzione siciliana” di Confindustria, snocciolando a palazzo San Macuto inverosimili dati sulla resistenza al racket. Tanto da indurre un loro caro amico, il ministro dell’Interno Angelino Alfano, a convocare a Caltanissetta il 21 ottobre del 2013 il comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica. In Sicilia non accadeva dall’estate del 1992, dalle stragi Falcone e Borsellino.

In quell’autunno nel cuore dell’isola arrivarono il capo della polizia, i comandanti generali dell’Arma e della Finanza, il direttore dei servizi segreti civili e la solenne cerimonia fu aperta naturalmente da Alfano: «Sono qui a Caltanissetta che è la patria degli imprenditori onesti che hanno avviato una vera e propria ribellione civile nei confronti del racket delle estorsioni».

Biciclette della legalità

Patria degli imprenditori onesti? Rivoluzione civile? I magistrati verificheranno che dalla Confindustria di Montante non è mai stato cacciato, in 12 anni, un solo socio colluso, nemmeno un ladro di galline. E i poliziotti scopriranno che l’Associazione antiracket e antiusura di Caltanissetta, sponsorizzata da Calogero Montante e con sede legale in via Sallemi numero 22, era fasulla. Nessun iscritto e nessuna sede.

Da un’informativa della squadra mobile: «Personale di questo ufficio si recava il primo aprile 2015 presso l’indirizzo dell’associazione in via Sallemi 22 ma lì non c’era nulla».

C’era e c’è ancora invece, molto ingombrante dall’altra parte della città, l’edificio più grande di Caltanissetta, un bene confiscato che, ovviamente, è diventato “il palazzo della legalità”. Una cinquantina di appartamenti, quasi tutti vuoti, finiti negli artigli di amministratori giudiziari e consulenti che si sono arricchiti con parcelle stratosferiche.

Fra menzogne e ipocrisie, il baraccone messo su da Montante, da Lo Bello e da Lumia ha cominciato a muoversi proprio con le biciclette del nonno e quella strada nella “zona franca”. Adesso che non c’è più (con un triplo salto mortale, da via Calogero Montante è diventata via Adriano Olivetti), anche nell’immaginaria Vigata descritta da Andrea Camilleri le associazioni in difesa dei consumatori chiedono al sindaco di Porto Empedocle di rimuovere la famigerata bicicletta dall’atrio del palazzo comunale: «È simbolo di malaffare».

Lo scrittore, in effetti, si era sbilanciato un po’ troppo sul cavaliere, raccontando – nella prefazione di un libro edito da Sellerio – di un’avventurosa pedalata sopra una bici Montante da Serradifalco, paese del cavaliere, alla sua Porto Empedocle per riabbracciare il padre. E tutto questo nell’estate del 1943, negli ultimi giorni dei bombardamenti degli Alleati in Sicilia. Una novella a lieto fine per Camilleri, se non per un dettaglio: la prima bicicletta Montante è nata 68 anni dopo quella sua pedalata.

Dai rapporti di polizia: «È accertato che il Montante ha iniziato a produrre biciclette con il marchio “Montante Cicli” solo in data primo aprile 2011 attraverso la società Italian Design Event». Lo stabilimento è a Castell’Alfero, in provincia di Asti, dove Calogero Montante ha obbligo di dimora dopo la condanna e, due volte al giorno, firma il “librone” dei sorvegliati speciali. Sul sito dell’azienda si insiste comunque sulla tradizione di famiglia: «Il vero lusso è quello di avere una storia, Serradifalco 1907».

Le bici di Antonello sono sparite appena dopo la sua cattura dagli aeroporti di Punta Raisi, Catania-Fontanarossa e Fiumicino dove erano in bella mostra, in eleganti teche di vetro, alle partenze e agli arrivi. A Palermo, donate al corpo di polizia municipale, si sono viste ancora per un po’ ma con i vigili urbani che accuratamente hanno coperto dalla canna il nome Montante.

Più imbarazzante ciò che è avvenuto a Milano. Undici giorni dopo che la notizia dell’indagine per concorso esterno a suo carico era di pubblico dominio, lui aveva fatto omaggio alla Questura di “n. 8 biciclette bike brigata color blu polizia”. La lettera di accompagnamento era indirizzata “alla cortese attenzione” della dottoressa Maria José Falcicchia, dirigente dell’Ufficio prevenzione e servizio pubblico. Nonostante l’inchiesta, per qualche mese, giovani poliziotti sono andati in giro intorno al Duomo con quelle bici sponsorizzate da un indagato per mafia. Ogni bicicletta regalata naturalmente ha un nome nei dossier ritrovati nella villa di Serradifalco, in un bunker segreto. Magistrati, uomini politici, attori, prefetti, direttori di giornali, personaggi televisivi. Una è andata anche al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, un’altra a papa Ratzinger.

L’inchiesta giudiziaria ha svelato finalmente cosa in realtà faceva l’incolpevole nonno trascinato nella vicenda: «Risulta che è stato titolare di un’impresa individuale con sede a Serradifalco in via Garibaldi, dall’8 novembre 1957 al 30 dicembre 1989, avente ad oggetto l’esercizio dell’attività artigianale di riparazione cicli e non, dunque, di produzione di biciclette». Aggiustava camere d’aria e copertoni, in un una piccola bottega al centro del paese.

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