Grande è la confusione sotto il cielo leghista in questa crisi di governo estiva. Soprattutto perché in gioco c’è sì il governo ma soprattutto il futuro politico di Matteo Salvini, dilaniato dal dubbio e stretto tra calo dei consensi e crisi interna al partito. Nella riunione del partito di lunedì è emerso il sentimento prevalente, ma non cosa fare chiaramente. Ieri, Salvini ha visto gli altri leader del centrodestra a Villa Grande, la residenza romana di Silvio Berlusconi. In serata, invece, con i colleghi di coalizione è andato a palazzo Chigi a incontrare Mario Draghi. I leader hanno posto delle condizioni a Draghi: il Movimento 5 stelle deve rimanere fuori dal governo, serve un accordo sulla legge di Bilancio.

In ogni caso, lato Lega, non c’è ancora una direttiva ufficiale sul cosa fare nell’eventualità che oggi si voti la fiducia al Senato. La linea verrà impartita pochi istanti prima del voto.

Matteo Salvini è tentato di chiudere l’esperienza con l’esecutivo. È accerchiato dall’ala dei sovranisti duri e puri del partito, che vorrebbero lo strappo definitivo per provare a riportare il partito nella trincea dell’opposizione così da non lasciarne il monopolio a Giorgia Meloni e ai suoi Fratelli d’Italia.

Uno degli scenari, infatti, ipotizzato dai leghisti, è lasciare che si formi un Draghi 2 sull’impronta del Conte 2, dunque senza destra in maggioranza. Tattica che permetterebbe alla Lega di rioccupare lo spazio ora dominato dai parlamentari di Meloni a otto mesi dalla fine naturale della legislatura. L’idea è maturata tra i parlamentari e dirigenti di fede salviniana nelle ore del vertice in Sardegna tra il leader leghista e Silvio Berlusconi, concluso con un comunicato congiunto nel quale hanno annunciato la linea comune: pronti al voto e mai più al governo con i Cinque stelle, definiti incompetenti e inaffidabili.

Caccia al consenso

Il comunicato Salvini-Berlusconi è del 17 luglio scorso. Quattro giorni prima il capo della Lega diceva pubblicamente tutt’altro: senza grillini in maggioranza neppure i leghisti sarebbero rimasti.

Il motivo di tale strategia è di nuovo banalmente elettorale. Una volta fuori dal governo, Giuseppe Conte è libero di avviare una lunga campagna elettorale in attesa del voto del 2023, con una macchina della propaganda già ormai carburata come dimostra la genesi di questa crisi di governo. E Salvini non può permettere che due diretti concorrenti come Conte e Meloni crescano sulle sue spalle rosicchiando voti su questioni che nel caso di Fratelli d’Italia sono sovrapponibili ai temi proposti dalla Lega.

«Se i Cinque stelle faranno una scelta parola agli italiani», ha detto in una conferenza stampa il 13 luglio, al suo fianco due dei suoi più fedeli consiglieri: Armando Siri, l’ideologo della flat tax con qualche guaio giudiziario da affrontare, e Claudio Durigon, l’uomo nostalgico di parchi intitolati al fratello del Duce, sindacalista dell’Ugl e ispiratore della riforma delle pensioni “Quota 100”.

L’immagine di questa triade rispecchia esattamente la strutture di potere attuale del partito plasmato da Salvini. Siri e Durigon sono gli interpreti della linea intransigente rispetto alla fronda governista, che seppure conti figure di spicco della Lega è sempre meno ascoltata e il più delle volte snobbata dal leader. «Salvini pensa al proprio tornaconto in questa crisi e non al bene del paese», dice un parlamentare un tempo vicino al segretario.

Durante la riunione di lunedì tra Salvini, i deputati e i senatori del partito, è prevalsa la linea dura del voto, e in pochi hanno sollevato obiezioni.

Un altro ottimo segnale per il segretario, che fino alla settimana scorsa era in sofferenza per le fratture profonde create all’interno dei gruppi parlamentari e nella Lega. «È naturale che sia così, se si andrà al voto a ottobre le liste elettorali le farà Salvini e inserirà solo chi ha mostrato fedeltà». La riunione di lunedì ha però mostrato anche un grado di confusione non trascurabile. Alla fine del summit non c’è stata un indicazione precisa su che fare e nessuna direttiva precisa è stata data agli eletti. «Cosa fare ci verrà comunicato il giorno del voto sulla fiducia», dice lo stesso parlamentare. La direttiva cui si dovranno attenere i leghisti arriverà, perciò, nella mattinata di domani, prima o durante l’intervento di Draghi al Senato.

Campagna permanente

Qualsiasi sia la decisione sul voto di fiducia una cosa è certa: Matteo è pronto a indossare di nuovo le vesti del Capitano, la versione più arrabbiata e vicina alla pancia dei suoi utenti social, che chiedono al segretario di andare al voto. Del resto agosto si avvicina ed è il mese in cui Salvini dà il meglio di sé in termini di propaganda specie se dovesse ritornare al Papeete, il locale dell’amico imprenditore e europarlamentare Massimo Casanova dove si consumò lo strappo agostano per eccellenza che demolì il governo giallo-verde del Conte 1.

Chi non vuole andare al voto sono altri elettori leghisti, secondo un sondaggio riportato dal Corriere della Sera. Circa il 30-40 per cento preferirebbe stare ancora al governo. Sono elettori in sintonia con i governatori del Nord (Zaia-Fedriga-Fontana) e con Giancarlo Giorgetti, che non frequentano con assiduità la bacheca di Facebook del senatore Salvini, popolata invece dai sovranisti radicali per i quali la battaglia del federalismo conta nulla.

«Un teatrino imbarazzante, che gli italiani non si meritano. Voi come vi augurate che finisca la crisi di governo provocata dai Cinque stelle, i migliori alleati del Pd?», ha chiesto ai suoi fan in un post pubblicato sulla pagina social quasi all’alba di ieri. Tra gli oltre duemila commenti prevale il «tutti a casa», «al voto», «elezioni subito, stiamo dalla parte della gente», «noi siamo conte grande Capitano, è ora di voltare pagina e smettere di fare i teatrini».

La campagna elettorale è iniziata. Resta solo da capire se Salvini la condurrà da dentro il governo oppure da leader che vuole tentare di fermare l’ascesa di Giorgia Meloni, la concorrente a destra che ha rubato il primato populista al «grande Capitano».

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