Il 9 maggio 1950 il ministro degli Esteri francese Robert Schuman ha proposto che l’Europa, a cominciare da Francia e Germania, condividesse le sue risorse strategiche, cioè la produzione di carbone e acciaio, per rendere la guerra tra europei «qualcosa di impensabile e impossibile». Schuman ha battezzato così quella che nel tempo sarebbe poi diventata l’Ue.

Settantadue anni dopo, la guerra è ai confini dell’Ue e il dibattito sulle risorse, a partire dall’embargo energetico, torna a frammentare i governi europei. Ma le parole di Schuman restano valide e premonitrici: «Per salvaguardare la pace mondiale servono sforzi creativi proporzionati ai pericoli». Quanto saprà essere «creativa», l’Unione europea, e quanto profondamente sarà capace di riformarsi?

Questo 9 maggio, festa dell’Europa, ci consegna almeno una certezza: l’Ue sta per cambiare. La ragione non risiede tanto nel lungo processo di partecipazione – la “Conferenza sul futuro dell’Europa” – che è iniziato un anno fa: oggi ci sarà una solenne cerimonia conclusiva con gli interventi della presidente del parlamento europeo Roberta Metsola, di quella della Commissione Ue Ursula von der Leyen, e del presidente francese Emmanuel Macron; la Francia ha la presidenza di turno del Consiglio Ue. Ma nessuna solennità garantisce che i governi si facciano davvero carico delle decine di pagine di richieste arrivate dalla società civile.

C’è però una variabile determinante: da quando la guerra in Ucraina è iniziata, i governi e le famiglie politiche più influenti – a cominciare dai paesi fondatori in Consiglio e dai Popolari all’Europarlamento – hanno individuato in questa fase il momento perfetto, l’occasione da non perdere, per spingere alcune trasformazioni già nel cassetto, in particolare nell’ambito della difesa.

Ecco perché il punto oggi, a 72 anni dalla dichiarazione di Schuman, non è tanto se l’Europa cambierà, ma come. L’Europarlamento ha già avviato il processo per una convenzione, che è il prodromo per la riforma del trattati. Se i governi non boicottano lo slancio dell’Europarlamento, già dal 2024 potremo eleggere anche eurodeputati di altre nazionalità, con le liste transnazionali. Se le forze ecologiste e progressiste non abbandonano il campo, e fanno valere gli esiti della Conferenza, avremo un’Ue più vicina all’ambiente e alle persone, un’Europa democratica e sociale.

Ma il rischio che i governi, con l’alibi della guerra, procedano speditamente solo a cambiamenti nell’ambito della difesa e dell’integrazione economica è molto alto. L’Europa resta inchiodata a un paradosso: per costruire una governance democratica sovranazionale, è necessario il consenso unanime dei governi nazionali, con tutta la variegata rete di interessi che trascinano, e con tutte le pressioni lobbistiche che incidono anche a livello europeo.

La conferenza e il futuro

«Una coscienza civile ce l’ho, è la politica che ormai se ne sta nella sua bolla. Voglio vedere se oltre ad ascoltarci ci daranno pure retta». Così diceva quest’autunno a Strasburgo Mustapha Rahaoui, uno dei cittadini estratti a sorte per le assemblee (i “panel”) della Conferenza sul futuro dell’Europa.

Intanto il processo partecipativo si è concluso. Sulla piattaforma online, alla quale qualunque europeo poteva partecipare, sono arrivati circa 44mila contributi, e il fatto che la gran parte siano sul tema della «democrazia europea» e sul «cambiamento climatico» è già in sé fortemente indicativo. Le assemblee di estratti a sorte hanno ulteriormente discusso le proposte.

L’Europarlamento sta pensando di rendere sistematici i “panel”. Il limite dei panel è che creano un binario parallelo alla democrazia rappresentativa, e che non necessariamente chi partecipa ha una visione politica. Si partecipa se si è sorteggiati; il campione di cittadini è rappresentativo delle diversità sociodemografiche.

Il sistema inizialmente è stato sperimentato non a caso in contesti locali, per dirimere le controversie o per una sorta di “democrazia del sondaggio”. «Nel 1999 ho gestito il primo panel per la società di trasporti di Parigi, per capire come migliorare la percezione di sicurezza dei cittadini», dice Yves Mathieu di Missions publiques, che ha collaborato alla conferenza Ue. A ogni modo il processo non si esaurisce con i panel: c’è la plenaria, dove cittadini sorteggiati e rappresentanti delle istituzioni dialogano.

Se le istituzioni Ue volessero «dar retta» ai cittadini, come Rahaoui chiedeva, dovrebbero già rivedere – da subito – le loro politiche. Per esempio, sarebbe inaccettabile continuare a dare i sussidi della politica agricola comune ignorando la priorità climatica. Sarebbe inconcepibile violare lo stato di diritto senza una forte reazione dell’Ue. Bisognerebbe rafforzare la contrattazione collettiva, e procedere speditamente sul salario minimo. Le prospettive di adesione all’Ue offerte ai paesi candidati, o potenziali, dovrebbero essere «credibili». Sarebbe inconcepibile distinguere tra rifugiati di serie A e B. Le due famiglie politiche della destra populista – Identità e democrazia, di cui fa parte la Lega, e i conservatori, il cui partito europeo è presieduto da Giorgia Meloni (FdI) – una volta visti gli esiti della Conferenza hanno deciso di sconfessarla.

Gli altri gruppi – popolari, socialdemocratici, liberali, verdi e sinistra – hanno invece garantito il loro appoggio a una risoluzione, approvata la scorsa settimana, che chiede di dare seguito alla conferenza.

Come? Dando il via a una convenzione, che è il prodromo della riforma dei trattati. Come ha osservato il giurista Alberto Alemanno, su circa 180 raccomandazioni dei cittadini, per ben 113 basta un’azione Ue, per 21 degli stati membri; solo una ventina richiede modifiche dei trattati. Per operare queste modifiche, l’Europarlamento indicherà, entro l’estate, su quali punti intervenire. Servirà poi la maggioranza semplice in Consiglio per avviare effettivamente la convenzione. Ma per adottare le conclusioni, e modificare i trattati, ci vuole poi l’unanimità.

Unanimità e difesa

«L’unanimità finora ci ha tenuti in ostaggio degli autocrati», dice l’eurodeputato verde Daniel Freund.

«La procedura dell’articolo 7, per lo stato di diritto, resta incagliata anche per questo. Vediamo pure che l’Ungheria e pochi altri possono bloccare decisioni cruciali, come quella sull’embargo. Governi come Italia, Francia, Germania, Belgio, Austria, Spagna, sembrano propensi a una riforma, e spero che lavorino in tal senso: ci sono ancora i dubbiosi, ad esempio a est e tra gli scandinavi».

Draghi ha già detto di voler superare l’unanimità, che regola ancora sfere ritenute «sensibili» per gli stati, come politica estera e allargamento; con Macron, che è in sintonia su questo e altro, vedremo quale pressione sugli altri governi sarà messa in campo.

Intanto la proposta di Draghi, di una «Conferenza sulla difesa», lascia intendere qual è l’altra grande priorità. La presidente dell’Europarlamento si è detta pronta a integrare nuove spese per la militarizzazione dell’Ue nel bilancio europeo. «Finora c’è il fondo europeo per la difesa, ma bisogna andare oltre», dice, in linea con Josep Borrell. L’inizio della guerra, con la spinta sulla difesa, è la vera svolta che ha allineato tutti i gruppi nella richiesta di riforma dei trattati: i popolari europei hanno convenuto che bisognasse chiedere la convenzione a guerra iniziata, e i socialdemocratici hanno dovuto negoziare perché nelle richieste di riforma fosse salvaguardata anche un’Europa sociale.

«Nel mio gruppo vogliamo ascoltare i cittadini e una vera Europa sociale è stata una delle richieste chiave dei cittadini durante la conferenza: dobbiamo dare una risposta anche su questo», dice Iratxe García Pérez, la capogruppo dei socialdemocratici all’Europarlamento. Vedremo cosa risponderanno ora i governi.

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