I leader formalizzano la nuova soglia di spesa. «Vittoria monumentale», esulta il presidente Usa, che fa scivolare lodi a Zelensky e aperture sui Patriot a Kiev. Ma in prospettiva Washington orienta tutto – alleanza atlantica compresa – sul confronto con la Cina
«Gli alleati si impegnano a investire il 5 per cento del loro Pil annualmente sui requisiti chiave della difesa e sulla spesa relativa a difesa e sicurezza entro il 2035». Dopo mesi di preparativi, la soglia del 5 è ufficializzata nella dichiarazione finale del vertice dell’Alleanza atlantica dell’Aia.
Cosa c’è di nuovo rispetto al dibattito che si è sviluppato nelle scorse settimane? Non quel numero, né l’escamotage per arrivarci: la scomposizione tra il 3,5 per cento di spese militari secche e un 1,5 di sicurezza e infrastruttura nel quale il governo Meloni è pronto a far rientrare pure lo stretto di Messina (Salvini dixit). Non il fatto che Trump abbia potuto vendere, alla prima conferenza stampa utile, agli americani quel numero come una sua vittoria: «Da quando sono tornato siamo arrivati molto rapidamente al 5, e questa è una vittoria di proporzioni monumentali per gli Usa». La vera sfida politica che si è compiuta all’Aia ha a che fare con la trasformazione della Nato in sé.
Agli europei, Trump lascia l’illusione che siano riusciti a trattenerlo per la giacca, sull’alleanza in sé, sulla mutua difesa, e magari pure sull’Ucraina. Ma era stato Trump stesso a costruire la minaccia di scappar via, mentre c’è qualcosa che gli europei gli hanno davvero concesso: non solo il 5 per cento, ma lo slittamento verso la priorità della Casa Bianca, che è altrove, lontana dal suolo europeo.
«Daddy» e la nuova Nato
«Sono convinto che questo sia un summit che davvero trasforma gli assetti», ha detto all’Aia Mark Rutte. «Ovviamente è molto concentrato sulla spesa, sul fatto di assicurarsi che la Nato collettivamente abbia soldi e capacità, data la minaccia di lungo termine russa. Ma dato anche il massiccio investimento militare della Cina, e il fatto che la Corea del Nord, la Cina, l’Iran stiano supportando la guerra in Ucraina».
Quando Pete Hegseth, il segretario Usa alla Difesa, aveva detto mesi fa che la priorità Usa si sposta dall’Europa all’Indopacifico, si riferiva certo alla volontà statunitense, ma indirettamente agli alleati: è tutta l’alleanza che sta pian piano torcendo lo sguardo verso quello che Trump considera il vero avversario, la Cina. Questo mercoledì, all’incontro coi partner dell’Indopacifico, Rutte ha detto: «C’è questa relazione con Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, perché la Nato ha degli amici, nell’Indopacifico. E quel teatro – comprese le minacce che lo riguardano – è sempre più interconnesso a quello euroatlantico».
Dopo che Trump ha reso pubblici i messaggi adulanti dell’ex premier olandese («l’Europa ora affronterà una GRANDE spesa e questa è una tua vittoria, Donald»), questo mercoledì Rutte ha sostenuto di non avere problemi né imbarazzi per essere finito su Truth: «Imbarazzato? Assolutamente no: quel che era scritto nei messaggini è un dato di fatto ed è per me del tutto ok che il presidente li abbia condivisi». Rutte non si è fermato lì. Nel corso del vertice ha anche chiamato pubblicamente Trump «daddy»: parlando delle uscite trumpiane verso Iran e Israele, ha detto che «il paparino a volte usa un linguaggio un po’ forte».
Ed è in fin dei conti la tattica con cui il presidente Usa ha trascinato l’Europa esattamente dov’è lui, cioè con lo sguardo puntato a Pechino e soci. Prima c’era stato lo spauracchio di una uscita degli Usa dalla Nato tout court: la notte del voto tedesco, un vincente Friedrich Merz si era detto incerto pure che si arrivasse all’Aia con la Nato intatta. In viaggio verso il summit, «il paparino che usa parole forti» ha seminato dubbi sull’architrave stesso dell’alleanza: la mutua difesa in caso di attacco subìto da uno degli alleati.
L’articolo 5 della Nato? «Dipende da come lo si interpreta», aveva detto Trump ai cronisti. Anche su questo – dopo aver gettato gli alleati nel panico – il presidente Usa all’Aia ha gettato zucchero: «Certo che supporto l’articolo 5, altrimenti non sarei qui». A scanso di equivoci, l’articolo 5 finisce pure nella dichiarazione finale: «Riaffermiamo il nostro invulnerabile impegno alla difesa collettiva come da articolo 5: un attacco a uno è un attacco a tutti».
Da Zelensky a Sánchez
Dato l’esborso degli europei, il presidente Usa ha fatto pure aleggiare la speranza di non aver del tutto abbandonato il continente alle intemperie russe, usando buone maniere con Volodymyr Zelensky, in precedenza bistrattato.
«Questo incontro con lui non avrebbe potuto essere migliore», ha detto il tycoon: «L’Ucraina vuole i Patriots e vedremo se possiamo renderne disponibile qualcuno». E Zelensky: «Kiev è pronta a comprare questo equipaggiamento e a supportare le manifatture Usa. L’Europa può aiutare. Abbiamo anche discusso una coproduzione di droni per rafforzarci a vicenda».
Stavolta a finire bastonato pubblicamente da Trump è Pedro Sánchez, l’unico premier ad aver – pure lui pubblicamente – detto che la Spagna non riuscirà a raggiungere il 5 per cento. Nella dichiarazione finale il distinguo non si nota, ma la differenza c'è in termini di mantenimento degli impegni e per l’opinione pubblica spagnola. Così il tycoon tuona: «Faremo in modo che Madrid paghi il doppio», dice, alludendo a punizioni commerciali. La Spagna è sotto l’ombrello del mercato comune europeo, ma – dice qualcuno – «daddy a volte usa parole forti».
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