«Si vada verso una soluzione rapida sui dazi», ha detto il cancelliere tedesco arrivando al Consiglio europeo, con una fretta che neppure Trump pare avere: questo giovedì sera la Casa Bianca ha fatto sapere che «dopotutto la scadenza del 9 luglio non è poi così critical, tassativa». Chiudere un accordo, «non importa se con costi», è la traduzione politica del messaggio di Friedrich Merz.

Più frettolosi nel calmare le ire di Trump – pronti ad aumentare le spese militari, volonterosi di chiudere almeno un accordo di principio sui dazi a breve – che pronti a gestirne le conseguenze: i 27 capi di stato e di governo europei, riunitisi questo giovedì per il Consiglio, sanno che la stragrande maggioranza di loro – almeno i leader di paesi Nato – dovrà spendere di più in difesa, perché questo è l’intento firmato all’Aia, ma non per questo ha soluzioni magiche su come farlo, a meno che l’opzione sottintesa non sia il taglio alle spese sociali. «Ormai è chiaro che le spese saranno nazionali», ammette un diplomatico.

Promesse senza risorse

Ai tempi del vertice di Versailles – era marzo 2022, Draghi era premier e insisteva sul punto in tandem con Macron – la spinta per il debito comune aveva avuto almeno un suo riflesso nel dibattito; fino a qualche mese fa, la parola “eurobond” circolava quantomeno nei corridoi; niente è rimasto, di tutto ciò, questo giovedì pomeriggio a Bruxelles. Più fonti confermano che l’establishment europeo è lontano dallo sfoderare grandi opzioni o anche solo da pensarci.

Si ripiega quindi sulle piccole opzioni: l’idea che a luglio Ursula von der Leyen presenti un disegno del bilancio comune capace di far filtrare soldi anche in direzione della difesa, il tanto abusato slogan della “flessibilità” che ha già piegato i fondi di coesione sull’opzione della difesa, l’ipotesi di riutilizzare per quest’ambito fondi europei non spesi, i rimaneggiamenti o i rimasugli.

La richiesta dei governi alla Commissione perché presenti «una roadmap» entro l’autunno – che si aggiunge al libro bianco sulla difesa presentato a marzo – rappresenta solo uno schema operativo sul da farsi, non sul come. Nel summit di marzo i governi programmavano di «mobilitare finanziamenti privati, invitare la Commissione a fare ulteriore uso dei programmi Ue»; e qua i governi sembrano rimasti, al netto dello schema di prestiti Safe e della deroga ad hoc sui vincoli. Niente grandi novità, quindi, nonostante Berlino per sé abbia sbloccato il freno al debito o la Danimarca (partner di Meloni sui migranti) abbia dichiarato l’uscita dai frugali in nome del riarmo.

Il fantasma dei dazi

Anche la fretta – perlomeno della Germania – nel chiudere l’accordo sui dazi implica costi. Le questioni commerciali non finiscono nelle conclusioni del Consiglio, ma la cena di questo giovedì serve come momento di raccordo, dopo i passaggi di Trump in Canada e all’Aia.

La Commissione – che ha competenza esclusiva in ambito commerciale – ha voluto verificare quanto in fretta (ovvero con quali costi) gli stati membri siano disposti ad andare: ormai non solo non si vede un’opposizione di blocco sui dazi base al 10 per cento (che Trump vuol farci digerire come già avvenuto con Londra) ma si ventila persino il rischio che la cifra possa finire al rialzo. L’intenzione di Bruxelles sarebbe di concludere perlomeno un accordo di principio con gli Stati Uniti entro luglio, senza escludere che poi sui singoli dossier si possa continuare a trattare dopo.

Anche se la portavoce di von der Leyen dice che le contromisure non sono mai da escludersi, nessuno ne discute davvero: il tema è semmai quanto amaro sia il boccone che gli europei sono disposti a ingoiare. Quel «fate in fretta» di Merz indica un’ampia disponibilità del cancelliere tedesco verso Washington, al quale lo lega anche il comune afflato a decostruire al ribasso la regolamentazione europea. Il cancelliere è tra i più vigorosi sostenitori della deregulation che già ora von der Leyen sta portando avanti a colpi di pacchetti omnibus.

Dazi e strumenti finanziari non sono ad ogni modo tra i punti sui quali bisogna inseguire il wording, la trattativa sulle parole da usare nelle conclusioni. Su altri temi si accende quindi la polemica di giornata.

Questo giovedì von der Leyen ha incontrato Robert Fico, sperando che con qualche concessione sull’energia la Slovacchia promettesse il via libera sul 18mo pacchetto di sanzioni contro Mosca; anche se la Commissione fuori microfono si dice ottimista, l’alleato di Orbán nel pomeriggio ha dichiarato che il veto non è ancora tolto. In ogni caso la decisione formale è prevista in altro momento; come pure l’ostruzionismo orbaniano sull’iter di adesione dell’Ucraina continua a manifestarsi rumorosamente.

«L’Ue non può accettare un paese in guerra», s’infiamma l’autocrate ungherese, mentre von der Leyen posta video sui social in cui si dice dalla parte di chi andrà al pride di Budapest sabato (ma senza prendere provvedimenti concreti).

Vie d’uscita

I governi hanno dovuto trovare anche una via di uscita comune (politica) sulla questione dell’accordo Ue-Israele: ormai la violazione dell’articolo 2 (a cominciare dal diritto umanitario) è conclamata e ufficiale, ma i governi che spingono per contromisure concrete – a cominciare da Pedro Sánchez – devono scontrarsi con altri come la Germania, il cui premier Merz resta graniticamente con Netanyahu.

«Se continuano a non fare nulla, dovremo agire come singoli stati», ha detto questo giovedì il premier sloveno. Per ora il Consiglio incarica l’alta rappresentante Ue di studiare le opzioni e si scherma dietro l’idea che, parlando con Tel Aviv, Kaja Kallas possa rivendicare qualche apertura sugli aiuti umanitari senza che l’accordo con l’Ue sia intralciato.

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