Nel sud di Pest, dove l’orizzonte è il Danubio, sono appena comparse via del Dalai Lama, via Hong Kong libera, via dei martiri uiguri. Qui, nel nono distretto della capitale ungherese, a Ferencváros, il conflitto tra liberali e illiberali d’Europa va in scena a colpi di toponomastica. Gergely Karácsony, il sindaco di Budapest, che vuole sfidare il premier Viktor Orbán alle prossime elezioni, ha inaugurato le nuove strade «dedicate a individui e gruppi etnici perseguitati dal partito comunista cinese» in segno di protesta. Il piano del primo ministro è infatti di costruire lì un imponente campus universitario della Fudan University. Fudan è la Yale di Shanghai, per intenderci. Per impiantare in Ungheria questa università, Orbán è disposto a sacrificare un progetto di studentato popolare ungherese e a indebitare il suo paese per un miliardo e mezzo di euro. Indebitarsi coi cinesi, ovviamente. Intanto nei consessi europei l’Ungheria sta bloccando le iniziative più o meno simboliche a sostegno di Hong Kong. Quando gli altri governi europei in Consiglio provano a condannare Pechino, quello magiaro sfodera il potere di veto. E se già gli ungheresi erano abituati a farsi iniettare il vaccino cinese e quello russo, adesso il paese è ufficialmente un outsider, perché in occasione del nuovo contratto siglato dall’Ue con Pfizer ha annunciato di non voler partecipare. Si sfila dalla contrattazione comune. Ma per andare dove?

Il caso Fudan

Alla fine dello scorso anno abbiamo dato notizia su questo giornale della partnership budapestina con la Fudan University di Shangai. Il paradosso è che solo a gennaio la presidente del distretto di Ferencváros, Krisztina Baranyi, è venuta a sapere dal governo che il progetto avrà luogo proprio nel quartiere di cui è “sindaca”. Baranyi è rimasta di stucco, perché lì era atteso tutt’altro: un campus per gli studenti ungheresi, una nuova cittadella universitaria budapestina capace di dare alloggio ad almeno 12mila ragazzi provenienti anche dalle aree rurali del paese. Ma il premier e Pechino hanno in mente tutt’altro piano, per “rivitalizzare l’area”: il primo campus europeo della Fudan, voluto a Budapest da Xi Jinping per primo. Si tratta di una università privata, rivolta alle élite, e che in Cina sforna i quadri dirigenti del partito comunista. L’indignazione della “sindaca di quartiere” Baranyi e del sindaco di Budapest Karácsony si costruisce sui molti paradossi di questa operazione. Anzitutto, a pagare per l’università privata cinese sono i contribuenti ungheresi. Mentre Orbán irregimenta, e trasforma in fondazioni, le università del paese, e programma di spendere circa 4 miliardi nell’educazione superiore ungherese, ben un miliardo e mezzo di soldi pubblici viene stoccato per l’avamposto di Shanghai. L’Ungheria si fa carico di pagare gli stipendi ai professori (qualcosa come 200mila euro annui ciascuno) oltre che della costruzione dell’edificio. Per quello non pare esserci fretta, tanto che c’è chi a Budapest è pronto a scommettere che neppure si farà – si parla del 2024 per cominciare a vedere qualcosa. Ma intanto c’è il giro di denaro, e quello fa gola. Orbán ha congegnato la cosa in modo che i soldi siano dei contribuenti ma che non ci sia obbligo di gara; poi, per pagare l’università cinese, chiederà un prestito… alla Cina. Ci sono precedenti interessanti, per esempio nell’ambito della politica energetica, che mostrano come questo tipo di operazioni abbiano finito per avvantaggiare l’entourage del premier.

Scontri culturali

Il conflitto non è solo sull’uso dei soldi, ma è anzitutto culturale. Nel 1989 un giovane Viktor Orbán invocava il ritiro delle truppe sovietiche; il suo movimento veniva finanziato dalla fondazione Soros, grazie alla quale il fondatore di Fidesz ottenne pure una borsa da diecimila dollari per studiare a Oxford. Adesso il premier ungherese è l’ideologo dichiarato della “democrazia illiberale”, come la chiama lui. Ha espulso dal paese la Central European University, esiliata in gran parte a Vienna, e pure apre le porte alla fucina delle élite cinese. Non ha mica iniziato ora con Fudan: l’Istituto Confucio, per la diffusione di lingua e cultura cinesi, ha già messo la sua bandierina su alcune importanti città ungheresi, come Debrecen o Seghedino. E pensare che, nel 2000, Orbán trovava ancora posto nella sua agenda per accogliere il Dalai Lama. Oggi per ricordare la sua causa bisogna affidarsi all’oppositore del premier. Ed è proprio a Gergely Karácsony, il sindaco di Budapest, l’uomo che rinomina le strade al Dalai Lama e a Hong Kong, che bisogna guardare per comprendere in che modo finirà lo scontro su Fudan.

Le prossime elezioni

Non è uno scontro su un campus, è uno scontro tra visioni e appartenenze diverse. Karácsony, che ha introdotto le primarie in Ungheria correndo come sindaco e ha strappato la capitale a Fidesz nell’ottobre 2019 coalizzando le opposizioni, punta ora a fare lo stesso a livello nazionale. Concorre alle primarie d’autunno, dove ha ottime chance di vincere, e chi la spunta in quella sfida interna competerà poi a nome di tutta l’opposizione unita contro Fidesz nel 2022. Il sindaco di Budapest, ambientalista, europeista, liberale, ha una strategia che potrebbe davvero mettere all’angolo Orbán e il suo cerchio magico: vuole parlare a tutti, non solo alla sinistra e agli ambientalisti, ma anche a quella destra che non si riconosce nelle derive illiberali orbaniane. Non a caso Karácsony per sfondare alle primarie – e spera anche dopo, alle elezioni – ha lanciato il “Movimento del 99 per cento”. Che significa: tutti, tranne l’1 per cento che ancora dà fiducia al premier attuale. Nel 99 per cento c’è spazio dunque anche per gli intellettuali conservatori. La sfida non sarà solo tra chi è contro Orbán, e chi è pro, o fra illiberali e liberali. Come lo stesso sindaco di Budapest ha detto in un’intervista a questo giornale, «Penso che l’Europa debba distinguere fra chi le è alleato e chi no». In questa fase, Viktor Orbán guarda a est come non mai.

I rapporti con Pechino

Oggi Fidesz, il partito del premier ungherese, è ufficialmente fuori dalla famiglia popolare europea: si può dire che le vere briglie che lo trattengono allineato con Bruxelles siano i fondi europei, del Recovery in particolare, e gli stretti legami economici con Berlino. Ma già da anni ormai, Orbán gioca di sponda anche con Mosca e Pechino. Oggi compra i loro vaccini. Nel 2009, ancora prima della sua rielezione a premier, intesseva rapporti e imbandiva promesse. Un primo incontro con Putin nel 2009 e un secondo nell’aprile 2010 gettano le basi di una nuova “alleanza pragmatica” con il Cremlino. E sempre nel 2009, in compagnia dell’imprenditore ungherese Sándor Demján, a bordo del suo aereo privato, Viktor Orbán intavola relazioni con il partito comunista cinese. L’apertura a est all’epoca non è in contraddizione con gli interessi occidentali, non con tutti almeno. Da una parte il leader di Fidesz spera negli aiuti finanziari cinesi per ammortizzare la crisi del debito, dall’altra la posizione ungherese è uno specchio di Berlino, che con la Cina – così come con la Russia – intrattiene fitti rapporti economici. L’Ungheria è la grande manifattura delle case automobilistiche tedesche, e quando Audi dirige verso la Cina il 60 per cento dei suoi motori, quegli stessi motori è nel Transdanubio che vengono prodotti. Durante il mandato di Orbán tuttora in corso, il dialogo con Pechino ha assunto anche la forma di un accordo per la nuova linea ferroviaria Belgrado-Budapest; un giro di affari da due miliardi, in cui l’85 per cento dei prestiti è cinese, gestito sul fronte ungherese da Lőrinc Mészáros, amico stretto del premier. Questo sarebbe il “corridoio tra Pechino e l’Europa”, la nuova via della seta. Adesso ci sono poi anche gli accordi per il vaccino – agli ungheresi sono toccati Sputnik e Sinopharm per volontà del loro premier – e il maxi-prestito della Fudan university; attraverso quel progetto, c’è la possibilità per la Cina di imbastire il suo avamposto culturale in Europa. Nel frattempo Fidesz spalleggia Pechino anche in Consiglio, quando l’Ue prova a fare il solletico alla superpotenza.

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