Mark Zuckerberg scrive editoriali dal titolo “Big Tech ha bisogno di più regole”. Ma poi Big Tech fa di tutto per sabotarle se compromettono i suoi profitti. Succede nell’Unione europea e da oggi esiste una formidabile collezione di dati che lo dimostrano. Le due organizzazioni Corporate Europe Observatory e LobbyControl, impegnate entrambe per portare alla luce i tentativi delle corporation di influenzare la politica europea, hanno prodotto insieme lo studio The lobby network. Big Tech’s web of influence in the Eu, che abbiamo potuto leggere in anteprima. Si tratta della prima mappa completa degli attori che tentano di influenzare le politiche di Bruxelles nell’ambito dell’economia digitale.

Il grande sorpasso

Questa geografia del lobbying porta negli Usa: lì hanno il quartier generale il 20 per cento delle aziende e associazioni dell’industria digitale che provano a condizionare Bruxelles. In tutto sono 612 e spendono all’anno più di 97 milioni di euro per l’attività lobbistica verso le istituzioni Ue. Il settore tech primeggia in questo: sorpassa persino aziende farmaceutiche, finanza, settore chimico e combustibili fossili. Chi già da molti anni avverte che i dati sono il nuovo petrolio non si stupirà dei nuovi sviluppi: i magnati del tech hanno persino superato le compagnie energetiche, per quel che riguarda le pressioni su Bruxelles. Le spinte (e i soldi) arrivano soprattutto da Google, Facebook, Microsoft: sono loro a spendere più di tutti in attività lobbistica. Non superano soltanto i colleghi dell’industria digitale; primeggiano su tutti.

Perché proprio ora

Come mai tutti questi sforzi? Il 2021 ha qualche chance di diventare l’anno del riscatto della politica sulle corporation digitali. Negli States, Joe Biden ha scelto per la sua amministrazione tre fustigatori di Big Tech sul fronte della lotta ai monopoli. I tre trustbusters Tim Wu, Lina Khan e Jonathan Kanter hanno un pedigree che fa tremare la Silicon Valley, e che elettrizza invece i progressisti delusi da un Obama troppo indulgente coi giganti del digitale. L’Unione europea pure si sta muovendo sul fronte della concentrazione industriale, con il Digital Markets Act. Assieme al Digital Services Act, che nasce per mettere le briglie alle grandi piattaforme su versanti come i contenuti illegali e la pubblicità personalizzata, compone un pacchetto di riforma, il “Digital Services Act package”. La Commissione ha già presentato le sue proposte, «noi europarlamentari abbiamo avuto tempo fino al 1 luglio per presentare emendamenti», dice l’eurodeputata tedesca Alexandra Geese, eletta tra i Verdi e che su questo ha lavorato in prima linea. «In autunno cominceranno i negoziati con la Commissione europea». Si entra nella fase decisiva. E c’è chi non sta a guardare.

Le spese

Per discutere il pacchetto, la Commissione von der Leyen ha avuto 271 incontri; il 75 per cento di questi è stato con l’industria. «Voglio lanciare un’allerta ai cittadini», dice Geese. «Le pressioni lobbistiche di Big Tech sono immani. Bisogna che gli europei – la società civile, le ong – si facciano sentire, visto che gli interessi delle grandi piattaforme sono già iper rappresentati in Europa». Il dossier di Ceo e LobbyControl fotografa che fra i 97 milioni spesi dall’industria digitale per il lobbying in Ue, ben un terzo arriva da dieci aziende sulle 612 totali. Il podio dei dieci che spendono di più vede Google in testa, con 5.750.000 euro; secondo è Facebook, con cinque milioni e mezzo. Microsoft spende 5.250.000 euro, Apple tre milioni e mezzo. Quarta è Huawei, che sborsa tre milioni. Poi c’è Amazon con 2.750.000 euro. Le ultime quattro aziende, ciascuna delle quali usa per il lobbying 1.750.000 euro, sono Ibm, Intel, Qualcomm e Vodafone. Oltre alle prime dieci, ci sono pure Netflix, Airbnb, Uber, Spotify, Alibaba ed eBay, che sganciano comunque tra i 600mila e i 900mila euro a testa.

L’egemonia

Non basta citare i portafogli svuotati per dar conto di quanto sia significativa questa fase. Serve anche un confronto con gli altri settori industriali e con il passato recente. Anzitutto i dieci colossi del digitale che spendono di più, spendono assieme molto di più dei primi dieci del settore chimico (le cui cifre raggiungono meno di 18 milioni di euro), e sborsano per il lobbying il triplo rispetto ai primi dieci dell’automobile: Volkswagen, BMW, Daimler e le altre top ten non arrivano, messe insieme, ai dieci milioni spesi. L’industria finanziaria sborsa 12 milioni. Con l’avanzare della digitalizzazione, e nell’era Covid in cui un pugno di aziende ha sempre più in mano le nostre interazioni, Big Tech supera pure se stessa: sette anni fa, Google, Facebook, Microsoft, Apple ed Amazon spendevano assieme 7,3 milioni, cioè un terzo di oggi. Non ci sono solo i numeri degli euro spesi ma anche le cifre dei lobbisti impegnati a dare assedio alle istituzioni europee. Sono quasi mille e cinquecento (1452, per l’esattezza) le truppe stanziate dall’industria digitale ogni anno a Bruxelles. Tra le piattaforme si distingue Facebook, che nella capitale belga manda il triplo delle persone di Google e di Amazon, mentre per le infrastrutture Huawei batte tutti (anche Qualcomm, Intel e Microsoft). Queste sono le presenze ufficiali dei singoli colossi. Ma la rete di influenze si esercita anche in modi più ampi e più sottili.

La terza via

Non basta calcolare solo gli sforzi delle aziende prese una a una, perché anzitutto si confederano in confindustrie e associazioni che a loro volta fanno attività di influenza. DigitalEurope ad esempio dichiara per questo scopo un budget di 1,25 milioni oltre che 15 lobbisti dedicati; tra le più attive ci sono anche DOT Europe ed EuroIspa. Associazioni internazionali con sede negli Stati Uniti, come ad esempio la Computer and Communications Industry Association (Ccia), sono anche loro assai dedite sul versante Bruxelles. Ci sono anche le influenze esercitate sui governi e sulle capitali, non solo quella belga. E non basta: le vie del lobbying sono infinite, o quasi; e allora ecco Big Tech che si avvale anche di consulenti, perché facciano pressing al posto suo. Tra le agenzie di consulenza con sede nella capitale belga, che sono 98, ben 14 sono nel libro paga delle top ten del digitale. Ma oltre questa soglia il resto è opacità. Il dossier mostra che, a dispetto del poco che viene dichiarato sul registro per la trasparenza, anche gli studi legali ed economici chiamati a dare contributi come esperti hanno le aziende tech tra i propri clienti. Ancor più ambiguo è il ruolo dei think tank. «Amazon dichiara di essere affiliata solo a tre think tank, ma in realtà la rete è molto più fitta», dicono gli autori del dossier: «Amazon, Google, Apple e Facebook portano alla luce queste connessioni solo dopo grandi pressioni dell’opinione pubblica». Ci solo alcuni centri che sono dichiaratamente finanziati da Big Tech, per esempio il Centre on Regulation in Europe; ci sono legami che rimangono invece sommersi. Geese ha constatato in prima persona gli effetti di queste reti sommerse: «A luglio, in una commissione dell’Europarlamento, è stato presentato uno studio sulla pubblicità online e il coautore è anche condirettore del Centre on Regulation in Europe, che è finanziato da Facebook, Google e dalle altre big della tecnologia», dice.

Effetti perversi

La strategia dei colossi della Silicon Valley è di mostrarsi in apparenza aperti alle regole, ma di sabotarle poi in tutti i modi. Dai documenti sulla loro attività lobbistica emergono alcune tattiche: primo, chiedere che le regole vengano stabilite «caso per caso»; secondo, ventilare un crollo degli investimenti se le misure dovessero essere troppo incisive. La terza tattica è quella più perversa: per evitare ad esempio che il Digital Services Act possa mettere in discussione seriamente lo sfruttamento dei dati per la pubblicità personalizzata (come vorrebbe Geese), Facebook e colleghi sostengono una tesi, e cioè che una politica simile manderebbe in crisi le piccole e medie imprese. A dire il vero c’è anche un report che lo dice: le nuove regole europee farebbero perdere 85 miliardi di Pil all’Ue. Quel report è stato stilato dal think tank Ecipe. Chi lo ha finanziato? Google.

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