Adesso che Big Tech e la Casa Bianca sono tutt’uno e fanno la voce grossa contro le regole europee, si capisce perché Max Schrems reinterpreti la sua battaglia per i diritti dell’era digitale «come una sfida generazionale». «Proprio come per i diritti delle donne o dei lavoratori, una vittoria non è un successo definitivo: si tratta di conquiste che non possono mai essere date per scontate». Lo sa bene lui, che nel 2011, quando era ancora uno studente di legge, ha cominciato a sfidare per vie legali Facebook in nome della privacy degli europei, facendo crollare uno dopo l’altro ben due accordi sul trasferimento dei nostri dati dall’Ue agli Usa (prima Safe Harbor nel 2015, poi il Privacy Shield nel 2020).

Erano i tempi del DataGate e della sorveglianza di massa, e Schrems – che oggi presiede lo European Centre for Digital Rights (Noyb) da lui fondato – era diventato l’icona della privacy in Europa. Sfidava i «broligarchi» prima che andasse di moda chiamarli così. Vinceva un colpo dopo l’altro (sulla protezione dei nostri dati dalla sorveglianza Usa la Corte di giustizia Ue gli ha dato ragione non una ma ben due volte, con le note sentenze Schrems I e Schrems II).

«Sembrano grandi vittorie eppure non è cambiato nulla», dice disilluso. «Vincevamo in tribunale, poi però a livello politico la Commissione europea e Washington riformulavano di fatto gli stessi accordi, identici nella sostanza, ma con aggiunte decorative». L’ultima volta è accaduto «con l’incontro tra Biden e von der Leyen del 2022, il patto è stato giustificato in nome dell’unità per l’Ucraina». Quando i tribunali ti danno ragione ma la politica non ti dà seguito, «vincere non basta».

Lo Zuckerberg convertito al trumpismo lancia affondi contro le regole europee. Lei ha sfidato Facebook in tribunale già anni fa; il nemico è lo stesso o è cambiato?

I comportamenti sono simili: spavaldi nella loro ignoranza. Quel che è cambiato è la dimensione geopolitica, la scala. Quando mi trovavo in California da studente, mi colpì il fatto che coloro che si definivano liberals interpretassero la libertà come un fottersene.

Tech e politica, ricchissimi del tech e presidente Usa sembrano portare avanti un affondo congiunto contro le regole europee.

Non so se quello di Trump e Big Tech possa essere definito come un vero e proprio piano: si tratta di un piano libertario ispirato dall’idea che l’abbattimento delle regole in sé sia un paradiso. Ma è molto più facile distruggere il castello altrui che costruire qualcosa che funzioni bene.

Quanto è forte quel castello? L’Ue si è da poco dotata di nuove norme sul digitale (Dsa, Dma, AI Act...) e già la Commissione ipotizza una “semplificazione” (deregulation). Che futuro hanno quelle regole? E che chance ha l’Ue di rimanere una potenza normativa, capace di imporre standard globali?

L’Europa può ancora essere una potenza normativa. Certo, prima si ragionava come se i paesi democratici facessero squadra e ora vediamo che il più potente tra loro non gioca più con gli altri, ma questo può persino comportare nuove opportunità. Per esempio, la Danimarca si sta domandando se sia ancora sicuro affidare i suoi dati ai cloud Usa con le minacce in corso sulla Groenlandia: sanzioni o ricatti, un black out dei dati, sono ipotesi da contemplare. Vuol dire che serve una alternativa europea per i servizi chiave cruciali: paradossalmente, è ancor più importante di prima avere regole efficaci.

Un rilancio delle regole Ue?

Innanzitutto, bisognerebbe pensare le regole come i filosofi – cioè con una visione strategica – e scriverle come i contadini: chiare, immediate, concrete: rendere semplice la complessità è un’arte. A volte le regole dell’Ue sono vittime di una farraginosa procedura di compromesso politico, per cui ciascuno può rivendicare qualcosa ma l’insieme non è abbastanza efficace. Inoltre non basta avere buone regole, bisogna avere strutture che le applichino. Un diritto non è tale se non è esigibile. Servirebbe una grande riconfigurazione, un rilancio, sì.

L’ipotesi di tassare i servizi digitali Usa in reazione ai dazi di Trump si ripercuoterebbe contro i consumatori europei o è sensata?

Se posto in termini assoluti, il dilemma è difficile da sciogliere: anche quando si tratta del trasferimento dei dati, non è plausibile pensare di interromperli da un giorno all’altro. Ma se dobbiamo imporre controdazi sui servizi, un’opzione è quella di concepirli come graduali (l’un per cento il primo mese, il due il secondo e così via). Se davvero ci "disintegriamo”, ci scindiamo (e non è un’ipotesi che promuovo), serve comunque un piano alternativo, e la gradualità consente di metterlo in campo. Per esempio, chi ha già dei data center in Ue potrebbe puntare su centri di elaborazione dati pienamente europei. Bisogna pensare oggi l’exit plan che si compirà nel giro di qualche anno. Purtroppo la Commissione pare immobile.

Non ha un pensiero strategico?

Esatto. Finora la Commissione Ue ha usato la strategia del bambino quando ha paura dei fantasmi: si copre gli occhi fingendo che il problema non esista.

Una settimana fa, Bruxelles ha assegnato multe (basse e tardive) a Meta e Apple in ottemperanza alle regole sul digitale. Né von der Leyen né le commissarie hanno voluto metterci la faccia: si fanno paralizzare da Trump?

Da una prospettiva più politica, posso arrivare a contemplare che si sia guardato il quadro generale, la guerra economica in corso, con l’idea di non alimentarla e che possa essere il più saggio a incassare. Questa resta comunque una prospettiva a dir poco scivolosa.

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