Il presidente Usa «accetta» di venire a Roma e di «considerare di incontrare anche l’Europa». Solo un mezzo appuntamento: è quel che resta dell’incontro alla Casa Bianca, in tema di dazi. Per il resto Trump dice che «un’intesa si farà ma non c’è fretta: loro la vogliono tanto, ma noi intanto guadagniamo molto»
«Grazie per aver accettato di svolgere una visita ufficiale a Roma e grazie per aver considerato la possibilità di incontrarsi anche con l’Europa».
Giorgia Meloni spunta a Donald Trump un mezzo appuntamento, in un incontro alla Casa Bianca che al netto dei toni complimentosi di Trump non risparmia neppure alla «fantastica, speciale, amica» Meloni le dure sottolineature dei rapporti di forza: nel giro di tavolo il presidente Usa interrompe di frequente la premier, poi in conferenza stampa lascia che i cronisti lo subissino di domande di politica interna, tanto che a un certo punto sulla diretta online c’è chi si chiede: «Is Giorgia still there? Meloni è ancora lì?».
Il versante europeo
«Gli altri paesi vogliono fare accordi molto più di quanto voglia io». E ancora: «L’Europa ha molti problemi, uno è l’immigrazione».
Trump non risparmia pizzicotti agli europei, tanto che la premier deve riportarlo in linea: «Sull’immigrazione stiamo cambiando molte cose». Sul versante europeo – almeno per quel che è ufficiale – l’incontro non riserva sorprese: la considerazione di Meloni che «l’Italia dovrà aumentare le importazioni di gas naturale liquefatto» si incastra perfettamente con quel che Ursula von der Leyen offriva a Trump come argomento di compromesso già prima che si insediasse (già a novembre, al summit europeo di Budapest, la presidente di Commissione parlava di più acquisti di gnl per imbonire il nuovo presidente). Anche l’aumento delle spese militari fa parte di una traiettoria alla quale la ReArm-Europa si prepara in vista del summit Nato di giugno.
Meloni cita il 2 per cento già fissato e non fa in tempo a dire che «siamo impegnati a fare di più», che Trump la interrompe per dire che «it’s never enough» (non è mai abbastanza) e dà una gomitata a Vance ridacchiando. (E Meloni: «L’Ue è impegnata a far di più, si sta dotando degli strumenti, tutti devono fare di più»).
Ma se è tutto qui, se i dazi finiscono appena accennati, se la Commissione europea in realtà è in contatto costante con Washington da febbraio sul tema, allora a cosa serviva e a cosa è servito che la premier italiana «coordinandosi con von der Leyen» tenesse tutta Europa col fiato sospeso come se il passaggio allo Studio Ovale potesse cambiarne le tariffarie sorti? La risposta sta certamente nella sostanza degli scambi che in pubblico non vengono dichiarati, ma sta anche e soprattutto nella propaganda.
E i dazi?
Il punto infatti non è se Donald Trump vorrà spuntare un accordo favorevole (per lui) con l’Unione europea. Come lui stesso ha confermato questo giovedì, al giro di tavolo con Giorgia Meloni, «un accordo ci sarà». Ma è sul come e sul quando, che la presenza di una leader della stessa sponda politica torna utile all’attuale inquilino della Casa Bianca.
Trump punta infatti a un accordo che sia per lui il più conveniente possibile: «Avremo davvero pochi problemi nel fare un accordo con l’Europa, loro lo vogliono molto, ma non abbiamo alcuna fretta perché nel frattempo stiamo guadagnando un sacco, abbiamo dazi su auto acciaio e alluminio al 25 per cento ad esempio».
Ed esaltare la premier che si definisce «nazionalista occidentale» lo aiuta sia a far pendere l’Ue dal lato sovranista (che la indebolisce sul piano dell’autonomia strategica) sia a far coincidere le sue mosse con un ritorno di immagine.
Le interlocuzioni tra Bruxelles e Washington sono infatti costanti già da febbraio, ma per il golden president – che per vedere il proprio ritratto laccato d’oro ha addirittura assunto un addetto all’oro della Casa Bianca – è oro quel che luccica: non conta solo la sostanza, la trattativa fitta con la Commissione europea, ma pure e soprattutto la baldanza. Il modo in cui un accordo viene presentato.
Per quanto il commissario Ue al Commercio Maroš Šefčovič possa aver già istruito i lavori per un compromesso, ha dovuto attendere il Liberation Day e poi la pausa di 90 giorni per poter chiamare quelle trattative «un negoziato»; e ora deve attendere che la internazionale sovranista costruisca la giusta cornice perché Donald Trump possa e voglia stringere a portata di telecamera una mano a von der Leyen.
Perché con Trump l’Ue paga dazio anche su questo: la delegittimazione della sua leadership istituzionale, unitaria e ufficiale, a favore della logica della cerchia politica e dell’amicizia personale.
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