«Sono io a essere stata insultata», è la sinistra a essere «illiberale e nostalgica»: Giorgia Meloni resta sulla linea dell’assalto all’europeismo di Ventotene. Salvo poi appellarsi a Ursula von der Leyen quando resta senza margine di manovra.

Era stata Meloni a invocare e celebrare come un proprio successo l’idea della deroga al Patto di stabilità per le spese aggiuntive in difesa, unico vero pilastro che regge la spesa altrimenti immaginifica («virtuale», per dirla con Meloni) di 650 miliardi di ReArm.

Ora la premier sostiene che «aprile è prestino» (Chigi non è certa di usare la leva) e si appiglia all’idea di «garanzie europee per investimenti privati» («InvestEU«). Invoca poi «strumenti europei davvero comuni che non pesino sul debito degli stati», pure in un incontro a due con la presidente della Commissione Ue (la stessa che definì Meloni «europeista» alla faccia di Spinelli, Colorni e Rossi).

Meloni pare essersi accorta che in un ReArm su base nazionale va avanti chi ha più spazio fiscale: anzitutto la Germania. La Francia dal canto suo ha ottenuto la «preferenza europea». E se è vero, come nota il commissario Ue alla Difesa, che «Leonardo è un attore molto forte» nel settore, sul piano strettamente politico Meloni ora non sa cantar vittoria.

La proposta sancheziana di allargare la cornice di sicurezza a cambiamento climatico e cybersecurity è stata respinta da Bruxelles. Gli eurobond restano un miraggio: scomparsi dal libro bianco della Commissione, boicottati finora da Berlino (che però si leva i freni) e da Amsterdam. Olanda che resta alleata di Meloni nei pre-vertici sui migranti. Stavolta, questo giovedì, l’incontro era per aumentare il novero dei “paesi sicuri”. E questo cavallo di battaglia – i migranti – rischia di restare uno dei pochi posti politicamente certi di una premier con divisioni interne.

L’Ue, Kiev e i sabotatori

Adesso che il sodale Trump è alla Casa Bianca e Salvini e Orbán spintonano per ricavarsi margini di manovra, la doppia faccia di Meloni – un po’ verso von der Leyen, un po’ verso i MegaPatrioti – rischia di causarle torcicolli.

Lo si vede sin dal primo tema del vertice: l’Ucraina. In un clima di disincanto sulle mosse del duo Trump-Putin, Zelensky ha aggiornato i leader ribadendo la propria postura: «Tutte le centrali nucleari restano in possesso dello stato ucraino», la Crimea altrettanto, non entrare nella Nato sarebbe «un regalo alla Russia». In sintesi, l’esortazione agli europei è quella di «non allentare le pressioni su Mosca». E i leader hanno siglato il loro «incrollabile sostegno all’Ucraina».

Tutti tranne uno. Come era già successo al Consiglio di inizio marzo, Viktor Orbán ha preferito distinguersi; nel frattempo nei corridoi del vertice il suo braccio destro Balázs Orbán (protagonista della scandalosa affermazione secondo cui Zelensky avrebbe dovuto imparare la lezione del 1956 e non opporre resistenza a Mosca) ha sventolato l’opposizione all’ingresso di Kiev in Ue, che sarà portata avanti con l’ennesimo referendum-propaganda. Sul tema i leader avevano concordato di avviare i negoziati a dicembre 2023, quando Meloni vantò di poter «dialogare» anche con Orbán e Scholz propose all’autocrate di uscire «per un caffè» al momento della decisione. Quel caffè è costato caro – perché von der Leyen ha promesso a Orbán di sbloccargli miliardi – ed è servito a poco.

Mega-Patrioti salviniani

Cosa ha a che fare tutto questo con le beghe di coalizione romane? Dopotutto persino Orbán ha dato l’ok al riarmo, purché su base nazionale. Il fatto è che negli ultimi giorni il dialogo tra l’autocrate e il suo alleato europeo Salvini si è intensificato, come quando – con l’argomento del porto di Trieste – a Roma ha fatto una capatina il più filorusso del governo Orbán, il ministro degli Esteri medagliato dal Cremlino (di cui è frequentatore). Péter Szijjártó ha twittato: con Salvini diciamo «no alla guerra». Poco dopo, Orbán ha premiato il leader della Lega.

Adesso che c’è Trump alla Casa Bianca e che l’oppositore Magyar è in testa ai sondaggi, il governo ungherese è sempre più sfrenato dentro e fuori: in Ungheria limita il diritto all’assemblea (a cominciare dal Pride), usa multe e sorveglianza facciale per reprimere il dissenso; in Ue Orbán dichiara – come ha fatto questo giovedì – che «gli Usa hanno il potere e i mezzi, l’Ue nessuno dei due». Una entusiastica proclamazione di impotenza dell’Ue che trova riscontro negli istituti di propaganda orbaniani (l’MCC), i quali tessono piani per «il grande reset dell’Ue», vogliono ribattezzarla Ecu (Comunità europea delle nazioni) e – manco a dirlo – vogliono più decisioni all’unanimità. In cui cioè non basta essere in 26, come sta accadendo su Kiev.

E in tutto questo Meloni che fa? I suoi all’Europarlamento su Kiev hanno iniziato ad astenersi per non rompere con Trump, mentre il governo italiano è tra quelli che hanno spinto per ridimensionare il piano Kallas per gli aiuti militari. Sarà da 5 miliardi invece che 40, ed è stato anche smantellato il principio dei contributi proporzionali al Pil che avrebbe visto Roma tra i grandi contributori. «Noi siamo più lontani», ha detto la ex sostenitrice indefessa di Kiev, Meloni.

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