Dopo che Friedrich Merz ha ribadito a palazzo Chigi, davanti ai cronisti, che l’incontro a cinque di Tirana non aveva nulla a che vedere con l’invio di truppe «ma con la pace», confermando quanto detto il giorno prima dall’Eliseo, Giorgia Meloni non si è accontentata del pasticcio di Tirana e ha provato a ribaltare le parole di Emmanuel Macron: «Non posso che prendere atto del fatto che dalle parole del presidente Macron l'invio delle truppe non è più un tema di discussione». E giù di allusioni ai «personalismi». Ma basta guardare la geografia del potere decisionale per ricostruire il reale equilibrio di forze.

Tutti in Vaticano

Roma caput mundi, sed Giorgia? Uno dopo l’altro convergono nella capitale i vertici internazionali: venerdì qui è atterrato Marco Rubio, il segretario di stato che assieme al vicepresidente J.D. Vance rappresenterà questa domenica gli Usa alla messa di insediamento di Papa Leone XIV. Poi sabato è arrivato il presidente ucraino. Non mancheranno i leader europei, a cominciare da Ursula von der Leyen, e sempre sabato a Chigi è stato appunto ricevuto Merz, oltre al neopremier canadese. Quel che dalla Casa Bianca Meloni sognava di intestarsi – un ruolo da pontiera, raduni e incroci euroamericani – si svolge invece per riflesso vaticano.

E suona ironico che proprio questo sabato mattina, mentre friggevano le polemiche sull’ennesima assenza della premier dal quintetto, triangolo di Weimar franco-tedesco-polacco più Londra e Kiev, Meloni abbia annunciato orgogliosa i suoi piani per «restituire all’Italia il ruolo di superpotenza turistica».

È ironico, sì, dato che nessuno ha messo in discussione le bellezze della penisola – pare siano piaciute a Carlo e Camilla in anniversario nuziale, e non deve averle disdegnate neppure la famiglia del fustigatore trumpiano d’Europa Vance già la scorsa volta – mentre ciò di cui si chiede conto alla «patriota» presidente è che fine abbia fatto fare all’Italia potenza politica.

Se si dà retta soltanto alle versioni ufficiali della maggioranza, già ci si perde nelle contraddizioni.

Ambiguità senza strategia

Per sbrogliare la matassa, in ordine cronologico: con l’inaugurazione del cancellierato di Merz, il leader cristianodemocratico corre a Parigi e Varsavia (non a Roma, dove arriva solo questo sabato). La priorità ai grandi vicini, dice: con Macron e Tusk negozia su industria della difesa e deregolamentazione, non solo su Kiev, dove poi con loro si reca il 10 maggio.

Le dichiarazioni di Meloni questo weekend al fianco di Merz – i riferimenti alle partnership dei colossi militari e alla deregolamentazione, propagandata persino con lo slogan di Macron («togliamo i dazi che ci autoimponiamo») –  mostrano che in realtà la premier è perfettamente consapevole che quel triangolo di Weimar 2.0 riguarda ben più che il dossier della guerra, e che prova a suo modo a rientrare nella scena.

Ma su quel treno per Kiev a maggio Meloni non sale. A Tirana venerdì l’assenza si ripete, ora sfacciata: Meloni è nello stesso luogo, ma non nella riunione a cinque. Scattano le polemiche, così lei esce a portata di telecamera e dà a intendere che non esserci al format ristretto sia cosa coerente, per il fatto che l’Italia non ha promesso truppe.

La versione non torna: pure Tusk dice da tempo che non spedirà stivali in Ucraina, eppure c’è. Poi che la versione non torni è suggerito da Macron stesso: non diffondiamo informazioni fuorvianti, già lo fanno i russi, dice. E precisa: ci si è incontrati per discutere di cessate il fuoco, non di soldati. (Versione ribadita poi da Merz quando arriva a palazzo Chigi: «Ora ci occupiamo di pace, non di truppe»).

Il caso deflagra, le opposizioni insorgono: così sabato mattina cadono con tempismo calcolato le parole dell’eminenza grigia di Meloni, il sottosegretario alla presidenza Giovanbattista Fazzolari: «Non si capisce quale sia – al netto della visibilità per alcuni – il senso e l’utilità di questo format ristretto dei volonterosi per l’Ucraina che indebolisce l’Ue e mina l’unità occidentale».

Quindi il giorno prima è Meloni che non va per le truppe (ipse dixit), quello dopo pare vittima di un contesto malevolo; o no: per il vicepremier Tajani «non siamo isolati, questo sabato il governo vede Merz, Rubio».

Se l’ambiguità strategica di Meloni – che è con von der Leyen ma pure con Trump – ha favorito il pasticcio, i tentativi di risolverlo sono pure ambigui e pasticciati: dell’ambiguità strategica non resta che un’ambiguità senza strategia.

La salva elegantemente Merz, che sabato da Roma ha espresso alla stampa attenzione per l’Italia: «deve svolgere un ruolo», «il formato va approfondito», «non esistono paesi di serie a e b».

Il Vaticano, Trump e Putin

Intanto nella capitale – non a Chigi ma in Vaticano – i fili internazionali si muovono: questo sabato mattina, dopo aver incontrato il papa, il cardinale Zuppi ha ricevuto Rubio, che ha ringraziato il Vaticano per aver facilitato lo scambio di prigionieri in Ucraina, definendolo «un luogo in cui entrambe le parti si sentirebbero a proprio agio». Nel pomeriggio, sempre il segretario di stato Usa ha parlato al telefono con Lavrov per tentare di sbloccare il cessate il fuoco.

In quei frangenti è piovuto l’annuncio di Trump sui social: lunedì si terrà la sua prossima telefonata con Putin per «fermare il bagno di sangue» (un drone russo su un bus a Sumy ha da poco fatto 9 morti): «Si spera che lunedì sia un giorno produttivo, che cominci il cessate il fuoco e finisca la guerra».

Il presidente Usa ha anche specificato che dopo la chiamata con Putin parlerà con il presidente ucraino e poi con alcuni paesi Nato. Nelle stesse ore in cui Rubio si dava da fare con incontri e telefonate, anche Zelensky era a Roma. Perché Roma caput mundi, sed Giorgia?

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