Quando si tratta di Stati Uniti (e di dazi), Ursula von der Leyen sceglie il Disarm Europe: rinvia a metà aprile (per ora) l’entrata in vigore delle contromisure Ue di risposta ai dazi trumpiani.

Il governo Meloni plaude entusiasta, mentre Trump resta Trump. Giusto questo venerdì ha tuonato che «faremo a loro quello che loro fanno a noi!», noncurante che gli europei in realtà non stiano facendo proprio nulla; neppure il minimo che avevano previsto. La vera ragione è politica ed è legata alle pressioni di alcuni governi (incluso il nostro) e alla postura filo Usa di von der Leyen.

«La gente viene da me, mi parla di dazi, mi chiede se può avere eccezioni»: questo venerdì, Trump ha svergognato chi a suo dire viene in supplica da lui, solleticando i compiacenti a continuare così. «Ma una volta che fai un’eccezione per uno, poi lo devi fare per tutti. Io non cambio. “Flessibilità” è una parola importante: talvolta si tratta di flessibilità, dunque ci sarà, ma è in sostanza reciproca».

Trump punta a scomporre i suoi interlocutori – ognuno in cerca di eccezioni per sé – e a ottenere il massimo lasciando il miraggio di una concessione.

Cronaca di un rinvio

Anche nei momenti di più acuta aggressività trumpiana – pure quando gli Usa hanno minacciato la Groenlandia o staccato gli aiuti a Kiev – von der Leyen ha ribadito che «siamo alleati transatlantici». I suoi piani per riarmo e difesa restano inquadrati nell’intesa con Usa e Nato. La Cina viene già introdotta – dopo la Russia – come la futura antagonista. Quando J.D.Vance a Monaco ha attaccato l’Ue, l’alta rappresentante si è limitata a un «sembra voglia litigare ma noi no».

E a dispetto del trattamento di velluto sono arrivate le stangate: il 12 marzo sono entrati in vigore i dazi trumpiani del 25 per cento (quindi persino superiori a quelli da lui lanciati nel primo mandato) su alluminio e acciaio.

A quel punto la Commissione (che ha competenza esclusiva sul commercio, essendo l’Ue un mercato unico) ha colto il momento per lanciare il piano di aumento delle spese per la difesa chiesto da Trump agli alleati Nato e ha dovuto dar segno di «rispondere ai dazi da 28 miliardi con contromisure da 26» su beni che vanno dal whisky alle moto.

Ma attenzione alle date e alla puntualizzazione finale: «Le nostre contromisure saranno introdotte in due fasi, inizieranno il 1 aprile e saranno completamente dispiegate entro il 13. Nel frattempo rimarremo aperti alle negoziazioni», per le quali von der Leyen ha incaricato il commissario al Commercio Maroš Šefčovič.

Come lo stesso Šefčovič ha fatto capire apertamente nella commissione incaricata dell’Europarlamento, Washington ha respinto l’invito a negoziare. «Gli Usa imporranno il 2 aprile altri dazi da loro ritenuti reciproci», ha spiegato Šefčovič facendo riferimento a quello che Trump chiama «il giorno della liberazione»; e «solo allora – mi dicono – potranno negoziare». Per inizio aprile sono stati ventilati dazi su auto e prodotti agricoli, ma Šefčovič riferisce anche di trasporto marittimo e altri settori.

La Casa Bianca non si limita a insistere nell’attacco, ma prova a dividere per imperare; anche per questo a metà marzo Trump ha straparlato di dazi del 200 per cento su vini e champagne, facendo tremare Eliseo e Chigi.

Giovedì von der Leyen ha «confermato che l’entrata in vigore dei dazi da 26 miliardi già annunciati è rinviata». La Commissione spiega che prima era prevista l’entrata in vigore di una lista l’1 aprile e una a metà aprile, e che ora invece sarà tutto allineato a metà aprile «per sentire gli stati e congegnare bene tutto». Ma già mesi fa gli apparati brussellesi dicevano di stare attrezzandosi allo scenario dei dazi, che la risposta sarebbe stata «pronta e ferma»; dunque la motivazione tecnica fa acqua.

«Ci serve più tempo per discutere con l’amministrazione Usa», dicono pure da Bruxelles. Ma come Šefčovič ha ammesso, al momento gli Usa rifiutano di negoziare. Anzi rincarano la dose; questo venerdì Trump ha insistito che «i partner della Nato ci devono trattare bene».

Agli osservatori Usa (si veda una recente prima pagina del New York Times) risulta ormai evidente che «per Trump i dazi non sono un mero strumento negoziale: lui davvero crede che renderanno l’America di nuovo ricca». E soprattutto: «Come oltre una dozzina di funzionari della sua amministrazione ammette fuori microfono, per Trump i dazi sono una forma di potere unilaterale che costringe gente potente ad andare da lui a pietire la grazia». Analisi che risulta confermata nelle parole recenti di Trump sulla «flessibilità».

Se già von der Leyen era da tempo definita «la presidente americana» per la sua propensione ostinata ad assecondare gli Usa, c’è da pensare che le pressioni delle capitali timorose di ritorsioni sui propri prodotti – o semplicemente filotrumpiane – abbia giocato un ruolo nel rinvio, rispondendo con riflesso pavloviano ai tentativi trumpiani di dividere il fronte in Ue.

Roma è tra le più accanite: su questo una volta tanto la coalizione Meloni è compatta, tra la premier che parla di «lucido rinvio» perché «preoccupano le conseguenze in caso di risposta» europea, Tajani che vorrebbe aumentare l’import dagli Usa e Salvini che definisce i dazi Usa «una opportunità». Filo-Usa anche Donald Tusk, che proprio questo venerdì ha invitato l’Ue a «non esacerbare» e a tentare di «persuadere» Trump; come se avesse già dimenticato qual è l’interlocutore.

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