A salvare giusto un pochino l’establishment europeo, così pronto a seguire Trump, è il fatto che Trump stesso abbia dovuto fermarsi. Contrordine, mercati: il Liberation Day è rinviato. O perlomeno, ci sono sconti in vista.

Utilizzando il social Truth questo mercoledì sera il presidente statunitense ha annunciato che per novanta giorni quelli che lui ha battezzato nel giardino delle rose come «dazi reciproci» – contro l’Ue, si tratta del venti per cento sulle importazioni in Usa – verranno portati al dieci per cento. Non vale per la Cina: la mossa è giustificata proprio col fatto che i paesi “graziati” «non hanno reagito, come avevo suggerito io».

Trump ha uno scontro frontale con la Cina da gestire. Una crisi che gli è rivoltata contro, proprio come gli si sono rivoltati contro pure i suoi. Poche ore prima, pur di placarli, aveva raccontato loro che «i leader vengono a leccarmi il culo pur di strappare accordi»; senza curarsi ovviamente che l’amica Giorgia Meloni fosse la prima a perdere la faccia con questa sua uscita.

La retromarcia trumpiana conferma quel che l’ex ministro per gli Affari europei portoghese aveva osservato poco prima dell’annuncio: «Questo sarebbe per l’Ue il momento in cui colpire alla giugulare. Adesso noi europei potremmo sostanzialmente porre fine alla presidenza Trump», aveva scritto Bruno Maçães. «Ma qualcuno pensa strategicamente, in Europa?».

Ue a passi lenti, quasi ferma

Finora i movimenti dell’Ue in risposta all’attacco ferale di Trump erano stati lenti e ridotti: un tentativo mal riuscito di mascherare l’immobilismo. O l’atterrimento: gli europei hanno ascoltato l’ormai screditato segretario del Tesoro Usa Bessent, che aveva intimato di star buoni e non reagire. Dunque l’unica mossa concreta realizzata era partita con il condizionale.

O per la precisione, con un: «These countermeasures can be suspended at any time, should the US agree to a fair and balanced negotiated outcome». Queste contromisure possono essere sospese in qualsiasi momento qualora gli Usa concordino di negoziare un assetto equilibrato. Le contromisure in questione non riguardano i «dazi reciproci» di cui sopra, ma la prima tranche di dazi trumpiani (ormai lontana nel tempo) contro alluminio e acciaio, destinata a colpire l’Ue per circa 28 miliardi.

Bruxelles ha annunciato un mesetto fa una risposta da 26 miliardi. Sconto di due. Poi ha rinviato questi controdazi. Su spinta anche del governo Meloni (che lo rivendica) ha poi sforbiciato la lista: niente alcolici, graziati whiskey e bourbon. Infine ha ridotto di qualche miliardo la portata. Tra i beni colpiti restavano soia, Harley-Davidson e altro. Proprio questo mercoledì finalmente gli stati membri hanno approvato questa lista, destinata ad entrare in vigore da metà mese. E mentre i più filotrumpiani si preoccupavano di esibire la distanza – «L’Ungheria oggi vota contro» ha sùbito twittato il ministro degli Esteri orbaniano – nel comunicato di Bruxelles spiccava quella precisazione: pronti a fermare tutto in caso di negoziato. Bruxelles continua a ripetere con insistenza di preghiera che vuole negoziare.

Il caso Meloni

Trump ha fatto due uscite di fila – kick my ass e fermi tutti – e nessuna delle due aiuta Meloni: la prima suona come un’umiliazione, la seconda brucia sul tempo possibili annunci trionfali. («Speriamo in una riduzione dei dazi almeno al dieci per cento», diceva da giorni Antonio Tajani). Inoltre il fatto che a varcare la porta della Casa Bianca sia un singolo governo semina perplessità.

I migliori alleati di Meloni – cioè il leader dei Popolari europei Manfred Weber e la presidente di Commissione – sono pronti ad accettare la logica per cui la premier può andare alla Casa Bianca e tentare di spuntare qualcosa, «in coordinamento con l’Ue» come riportano da giorni le testate economiche internazionali. Ma Marc Ferracci, ministro all’Industria francese, ha sottolineato che «dobbiamo essere uniti perché così siamo forti. Se iniziamo coi colloqui bilaterali perderemo l’attimo propizio». E il segnale non è partito solo da lui. Benjamin Haddad (delega agli Affari europei): «Nessuno ha interesse a precipitarsi a Washington in ordine sparso per fare concessioni a Trump, solo una risposta unita tutelerà i nostri interessi».

Pronta la reazione del suo omologo meloniano, Tommaso Foti: «Ah, quindi quando a Washington va Macron è ok, quando va Meloni no?». La portavoce del governo francese ha dovuto gettare acqua sul fuoco a pomeriggio inoltrato. Ma le tensioni ci sono; del resto i meloniani erano stati i primi a criticare l’Eliseo per le sue iniziative invocando che partissero dall’Ue.

In quel caso Macron aveva svariati alibi – la non coincidenza tra volonterosi e Ue – ed era stato Trump stesso, sin dal suo viaggio a Notre-Dame, a scegliersi l’interlocutore; l’Ue non ha osato (neanche allora) contestarlo. Stavolta si tratta di commercio, tema Ue per eccellenza: la difesa no, ma il mercato è comune, e la grammatica istituzionale richiederebbe che alla Casa Bianca vada von der Leyen, come successe quando a Berlaymont c’era Jean-Claude Juncker e a Washington un Trump al primo mandato.

La Commissione ha competenza esclusiva in ambito commerciale. Appena il tycoon si è insediato, von der Leyen ha manifestato l’intenzione di fargli visita; cosa che ancora non è avvenuta (Netanyahu è habitué). L’attuale inquilino della Casa Bianca esibisce disprezzo per l’Ue e per i suoi vertici, sia per l’atteggiamento ostile verso gli europei sia per coerenza con la propria convinzione che si debba trattare con singoli governi e frammentare il fronte.

Non significa che le interlocuzioni con la Commissione non ci siano: Šefčovič è già stato a Washington più volte, e pure Teresa Ribera era in città (nel Liberation Day). Ma l’amministrazione trumpiana aveva rifiutato di aprire formalmente un negoziato e persino di far interloquire Bruxelles con chi davvero decide: «Pare che a decidere davvero su questo tema siano Trump in persona e Navarro, ma non c’è stato modo di parlare con loro», aveva detto il presidente della commissione commercio dell’Europarlamento Bernd Lange.

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