Pochi leader, come Merz, schiacciano tutta l’Ue sulle posizioni di Netanyahu. Agli schemi già visti in precedenza con von der Leyen si sommano ora anche le spinte divisive e regressive innescate dal tycoon
Quando il cancelliere tedesco dice che «Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti noi», l’affermazione riflette la posizione Ue? «Non commentiamo sui commenti», rispondono i portavoce della Commissione: se c’è qualcosa che non cambia, è l’impermeabilità alle domande scomode.
Anche la reazione dei vertici Ue all’attacco di Israele contro l’Iran ha qualcosa di ripetitivo: avevamo già visto Ursula von der Leyen schierarsi con Netanyahu in modo irriguardoso verso il consesso dei 27 governi, così come le divisioni tra stati membri sono talmente note da diventare ormai un alibi per l’inazione. «Prenderei queste decisioni se dipendesse da me, ma rappresento 27 stati e questa è la mia frustrazione», ha detto Kaja Kallas in un confronto con l’Europarlamento su Gaza questo mercoledì.
È vero, come dice l’alta rappresentante Ue, che «dovete far pressione innanzitutto sui vostri governi se volete cambiare la posizione dell’Ue»: la dimensione intergovernativa è sempre stata prevalente. Tuttavia qualcosa sta cambiando, in peggio, rispetto alle dinamiche già viste.
L’innesco è Trump per due fattori: la sua attitudine a smembrare l’Ue, scegliendo i suoi interlocutori, e la sua spinta regressiva, dall’ordine basato sulle regole al disordine basato su forza e prepotenza. Così un pugno di leader, a cominciare da Merz, si arroga la pretesa di trascinare tutti gli europei nella guerra di Netanyahu e Trump.
Similitudini e differenze
I rumor sulla frustrazione di svariati ministri degli Esteri per le uscite di von der Leyen paiono un déjà vu.
In questo caso, dal G7, la presidente ha riferito di una sua telefonata con Netanyahu e ha dichiarato che «Israele - lo sottolineo – ha il diritto di difendersi», ed è «l’Iran la maggior fonte di instabilità regionale».
Già in precedenza von der Leyen aveva preso posizione pro Netanyahu (e ci sono voluti due anni perché in Ue le rimostranze sul massacro nella striscia smuovessero il dibattito). Prima ancora – a marzo 2023 – dalla Casa Bianca la presidente di Commissione aveva portato in dote a Biden un decoupling dalla Cina senza però concordarlo coi governi: aveva poi ripiegato sul derisking.
Dovrebbe essere l’alta rappresentante – vicepresidente della Commissione ma pure punto di raccordo coi 27 ministri degli Esteri – a esprimere posizioni Ue in politica estera; ma von der Leyen, accentratrice qual è, sconfina sempre.
Tuttavia lo squilibrio tra spinte di pochi e consenso dei più si accentua nell’èra Trump. Il presidente Usa ha scelto i suoi interlocutori: già nel suo viaggio a Notre-Dame, ha individuato in Macron la persona da chiamare per aggiornarla su Kiev e dintorni. La «coalizione dei volonterosi» – che ha dovuto tener conto di equilibri extra Ue, a cominciare da Londra – ha facilitato lo slittamento di potere dal consesso al gruppetto.
Trump è tuttavia l’innesco: le responsabilità restano dei leader europei. Il cancelliere tedesco – consapevole di quanto Berlino condizioni da sempre von der Leyen – contribuisce a forzare la mano, rinsaldando quello che chiama «un coordinamento stretto» con Parigi e Londra (e talvolta Varsavia).
Così finisce che l’Ue assuma come propria la dichiarazione del G7 – sbilanciata verso Trump e Netanyahu – e che Merz, senza aspettare riunioni a 27 né tantomeno consultarsi col proprio parlamento e opinione pubblica, arrivi a dire a nome di un «noi» fittizio che si debba esser grati a Israele per aver fatto «il lavoro sporco».
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