Mentre la sua amministrazione sposta l’orizzonte a settembre, il presidente lancia messaggi arbitrari: «Potrei pure anticipare rispetto al 9 luglio, o imporre il 25%». I leader europei hanno già digerito tassa fissa e deregulation. Von der Leyen prende pure a picconate il Wto
Prima che la Cina potesse definire i contorni e i limiti della vicenda, Donald Trump aveva – come al solito – già annunciato che «abbiamo firmato ieri, no?». E mentre il segretario al Commercio Usa, Howard Lutnick, aggiungeva a corollario che «altri accordi arriveranno presto», quello al Tesoro, Scott Bessent, sfumava l’orizzonte verso settembre: «Entro il Labor Day». L’unica cosa certa delle scadenze imposte da Donald Trump è che sono totalmente arbitrarie: così come ha fatto saltare le fantomatiche due settimane di varco sull’Iran, attaccando prima, allo stesso modo questo venerdì il presidente stesso ha detto che «posso posticipare o anticipare».
Vaso di coccio già di suo, perché esposta alle divergenze interne, l’Ue in vista del 9 luglio – la scadenza, forse – affronta la variabile Trump con trepidazione. Dopo che, nella tarda serata di giovedì, in Consiglio, i leader hanno affrontato con Ursula von der Leyen l’ennesima controproposta arrivata da Washington, il giorno seguente il commissario al Commercio si è raccordato con l’amministrazione Trump (con Greer) per telefono: «Apprezzo l’impegno costruttivo».
I bollettini internazionali hanno preso a dare un accordo praticamente per fatto in tempi brevi. Nei corridoi del Consiglio, fonti della Commissione hanno chiarito già giovedì pomeriggio quale potrebbe essere lo schema: una stretta di mano, almeno di principio, entro il 9 luglio, senza escludere che i lavori proseguano in dettaglio sui vari capitoli.
Dietro questo apparente ciel sereno – la ritrovata sintonia di Washington con Pechino sulle terre rare, le allusioni dell’amministrazione Trump a una flessibilità sulle scadenze per gli accordi commerciali – si celano foschie.
I tempi e i ricatti multipli
Il punto non è solo fino a che punto il «paparino che usa parole forti» – così Rutte ha definito Trump – stia agitando l’establishment europeo con le sue richieste sempre più pressanti, ma soprattutto la preferenza di molti leader per l’accondiscendenza.
Già timida, la resistenza all’ipotesi di dazi base fissi al 10 per cento sembra ormai vanificata, schiacciata dai timori che Trump possa persino sollevare la soglia. Questo venerdì ad esempio ha agitato il 25 per cento a mo’ di ricatto: «Posticipare la scadenza? Posso pure anticiparla, se voglio; mandare lettere in cui impongo il 25 per cento».
Alla cena del Consiglio – momento di raccordo con la Commissione che conduce le trattative – anche la compattezza dei leader su una lista di contromisure si è rivelata sempre più friabile, al di là del fatto che a parole molti dicano: «Nessuna ipotesi è esclusa».
La fretta espressa da Friedrich Merz al suo arrivo al vertice, il sollecito a chiudere subito un accordo semplice piuttosto che dopo uno complesso, sono interpretati da chi conosce il dossier come un fattore destabilizzante per la strategia generale: «Il rischio –spiega il capodelegazione dell’Europarlamento per le relazioni con gli Usa, Brando Benifei, riflettendo su Merz – è che i leader nazionali inseguano interessi di settori che vogliono risposte rapide, come quello automobilistico», sul quale pesa il 25 per cento, come su alluminio e acciaio.
Un altro (dis)ordine
Le trattative non riguardano solo i dazi in sé, che il consesso europeo sembra rassegnato a digerire come condizione fissa, ma anche altro. Agli Usa interessa ad esempio l’accesso alle risorse scarse chiave del futuro (terre rare e dintorni), tema sul quale si è sbloccata nelle ultime ore la contesa con Pechino.
L’amministrazione Trump ha dichiarato di aver risolto i problemi relativi alle spedizioni di terre rare verso gli Usa, che ostacolavano l’accordo concluso a maggio; il ministro del Commercio cinese ha detto che Pechino approverà l’export in linea con la legge. Agli europei viene chiesto, nelle trattative, anche di disallinearsi alla Cina (con la quale l’Ue ha un vertice a fine luglio); l’Ue sta discutendo con Washington pure di terre rare.
Ma la contesa cruciale riguarda un bene che non ha prezzo: regole e diritto. Da qualche tempo il concetto che la regolamentazione Ue sia un bene non negoziabile non viene più ripetuto come un mantra nelle sale stampa; prima veniva definito «la linea rossa». Merz è in prima linea nel sollecitare un’ampia deregulation.
Nella notte del Consiglio europeo – attorno alla mezzanotte di giovedì – Friedrich Merz ha anche scoperchiato un’altra trovata che porta la firma di Ursula von der Leyen (a detta del cancelliere, un «nuovo Wto a traino Ue»): trattasi del tentativo di destrutturare l’Organizzazione mondiale del commercio, svolto sotto la bandiera della riforma, ma in verità una picconata al multilateralismo. Nelle intenzioni di Bruxelles, l’Accordo globale e progressivo per il partenariato transpacifico (CPTPP) dovrebbe fare da Frankenstein del commercio, cioè da punto di partenza per un mini-Wto parallelo (in verità in funzione anti-cinese). In un eccesso di zelo, Ursula von der Leyen si sta facendo carico per Trump di picconare l’ordine internazionale al quale lui per primo è allergico.
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