Mentre l’Italia discute, Bruxelles va avanti sul salario minimo europeo, ma bisogna aspettare il prossimo anno perché il dossier sia chiuso. E se il testo rimane questo, l’impatto diretto sul nostro paese sarà ridotto. Ci saranno comunque i benefici di un riequilibrio dei livelli salariali in tutta l’Ue.

I divari in Europa

L’Italia è uno dei pochi stati Ue che non hanno il salario minimo. Oltre a noi, ci sono i paesi scandinavi, dove i sindacati sono forti, e poi Austria e Cipro. Gli altri 21 paesi europei sono dotati di minimum wage, ma con disparità forti da una nazione all’altra. In Bulgaria nel 2020 il minimo mensile era di 312 euro, in Lussemburgo supera addirittura i 2.100. Sono i due casi estremi. La tendenza è: minimi salariali sotto i 600 euro a est (430 in Lettonia, 610 in Polonia) e sopra i 1.500 nel nord ovest dell’Ue (la Francia sopra i 1530, Germania e Belgio quasi 1.600). Poi ci sono cinque stati a sud, dal Portogallo alla Spagna, che vanno dai 740 ai 1050. I dati Eurostat raccontano che la direttrice delle disuguaglianze oppone l’est al nord ovest; ma anche il sud non se la cava bene.

C’è poi un altro aspetto da considerare, ed è la diffusione o meno della contrattazione collettiva; è assai ridotta nei nove paesi con i minimi salariali peggiori (Bulgaria, Romania, Ungheria, Polonia, Estonia…). Lì, solo tra il 7 e il 30 per cento di lavoratori beneficia di livelli salariali negoziati dai sindacati. A mettere insieme i dati è proprio la confederazione dei sindacati europea, che nota come, viceversa, sette paesi dove i salari sono i più alti hanno una contrattazione collettiva che copre il 70 per cento dei lavoratori.

Le leve di Bruxelles

In campo sociale le competenze Ue sono limitate, ma una combinazione di fattori – inclusa la pandemia – scuote Bruxelles dal torpore. Il “pilastro sociale” europeo è nato nel 2017 e la necessità di salari minimi adeguati è stata confermata due anni dopo da Ursula von der Leyen nell’agenda di mandato. Un anno fa, per ridurre le sperequazioni e «migliorare le condizioni di vita e lavoro», la Commissione Ue ha presentato la sua proposta di direttiva. Una direttiva obbliga gli stati a prendere misure per raggiungere uno o più obiettivi. Nel caso della “direttiva per salari minimi adeguati nell’Ue”, gli obiettivi riguardano sia la retribuzione che la contrattazione collettiva. Il testo non impone a ogni paese di adottare il salario minimo, ma dice che gli stati che vi ricorrono devono anche assicurarsi che risponda ad alcuni criteri; per esempio, che tenga nella giusta considerazione il costo della vita. L’indicazione di «usare come parametri il 60 per cento del salario mediano lordo e il 50 di quello medio» rimane però non vincolante, nella bozza di Bruxelles, il che ne limita l’impatto. Il testo dice anche che «i paesi nei quali la contrattazione collettiva non copre almeno il 70 per cento dei lavoratori devono prevedere un quadro per avviarla e istituire un piano d'azione per promuoverla». L’Ue non obbliga, ad aumentare il ricorso alla contrattazione; ma a favorirla sì.

L’impatto sull’Italia

«Sono in contatto costante con il ministro del Lavoro Andrea Orlando», dice l’eurodeputata Pd Elisabetta Gualmini, che lavora al dossier ed è nella commissione Lavoro dell’Europarlamento. Se la direttiva rimane come l’ha proposta la Commissione, Roma non ha obblighi di adottare il salario minimo, ed è a posto «anche con la contrattazione, perché supera già la soglia del 70 per cento: siamo attorno all’85». Ma gli europarlamentari, e i governi riuniti in Consiglio, devono dire la loro. «Se all’Europarlamento passa l’emendamento per alzare la soglia al 90 allora la cosa avrà un impatto anche su Roma». Ci sono poi gli effetti indiretti sull’Italia. Luca Visentini, segretario generale della confederazione europea dei sindacati (Etuc), inserisce tra i benefici anche per noi il fatto che «la direttiva è un passo per ridurre la concorrenza salariale al ribasso». Se nei paesi con le situazioni più critiche, a est in primis, i salari si sollevano, il rischio di dumping sociale diminuisce a beneficio di tutti gli europei. «Quando in Polonia le multinazionali sono state costrette a negoziare coi lavoratori, i salari sono raddoppiati: con Volkswagen, sono passati da 400 a 800 euro».

I tempi e il dibattito

Europarlamento e Consiglio esprimeranno la loro posizione verso fine anno, poi partiranno i negoziati tra istituzioni Ue (i “triloghi”). La Francia, che col 2022 inizierà il suo semestre europeo dopo quello sloveno, preme per sbloccare le divergenze tra governi quando ci sarà lei alla guida, così che Emmanuel Macron possa vantare il successo alle presidenziali.

Mentre i sindacati dell’est Europa sono assai favorevoli a una iniziativa Ue, i governi polacco e ungherese sono reticenti. La vulgata è che difendono la loro sovranità. Fatto sta che qui finora le grandi imprese tedesche hanno potuto godere di condizioni di lavoro vantaggiose per loro, meno per i lavoratori. Per motivi diversi si oppongono pure Svezia e Danimarca: rivendicano la peculiarità positiva del loro sistema di contrattazione, con ruolo forte dei sindacati; gli scandinavi vogliono persino proporre di escludere (“opt-out”) i due paesi dalla direttiva.La variabile che può fare la differenza sarà il nuovo governo a Berlino. Il leader socialdemocratico, Olaf Scholz, ha fatto dell’aumento del salario minimo tedesco a 12 euro un punto fermo della sua campagna. Se i liberali non lo freneranno negli accordi di coalizione, Scholz potrebbe sbloccare tutta l’Ue.

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