Vi state domandando come si viaggerà in Europa questa estate? È in arrivo il certificato europeo. In teoria, serve a contenere la pandemia e al contempo a facilitare la ripresa della libera circolazione. Ieri le tre istituzioni dell’Unione europea – parlamento, Commissione e Consiglio – hanno trovato un accordo, a cominciare dal nome, che è “Eu Digital Covid Certificate”. Bruxelles accelera perché intanto ogni governo sta azzardando il suo pass, ma bisogna renderli interoperabili fra loro, e a questo pensa l’Europa. La stretta di mano c’è, resta solo l’approvazione formale di governi ed eurodeputati entro inizio giugno. Dal 1° luglio il regolamento Ue, e quindi il certificato, è in vigore. Ecco come sono stati sciolti i principali nodi politici.

Durata circoscritta

Gli eurodeputati hanno chiesto di ribattezzare il “green pass” (nome dato dalla Commissione) in “Certificato Covid” proprio perché pretendono che il suo uso sia circostanziato all’emergenza pandemica. Hanno ottenuto che il regolamento abbia una durata circostanziata nel tempo: entra in vigore il 1° luglio, dopo 12 mesi decade. Si chiama «sunset clause», clausola di caducità. L’Ue ovviamente non decide per ciò che avviene nei singoli paesi: Emmanuel Macron, ad esempio, ha previsto l’uso del pass dal 9 giugno per partecipare agli eventi. «Il rischio è che questo tipo di infrastruttura diventi una componente del nostro stare in società, e che si produca un regime di sorveglianza sanitaria» dice Fabio Chiusi, che guida il progetto Tracing the tracers per AlgorithmWatch. Perciò la sunset clause è dirimente.

Costi calmierati

L’accordo chiarisce che il possesso del certificato non deve essere una precondizione per esercitare il proprio diritto di libera circolazione: il punto cruciale, per gli eurodeputati, è che il certificato non abbia effetti discriminatori. A tale proposito, se non si è vaccinati né guariti da Covid-19, allora c’è un’altra opzione per ottenere il certificato, e cioè un test negativo. Questa opzione serve a fugare i timori che il certificato diventi un obbligo indiretto alla vaccinazione, e che si trasformi in una discriminazione tra vaccinati e non. Ma quanto costa fare un test? In alcuni paesi il costo è proibitivo, fanno presente le associazioni dei consumatori europei Euroconsumers e Beuc. La Francia offre i test gratuiti ai turisti in arrivo, ma nei Paesi Bassi servono tra i 120 e i 149 euro, in Spagna si arriva a 120 euro, in Germania a 135, e un sondaggio svolto dalle associazioni dice che tra italiani, belgi, portoghesi, spagnoli, due su tre chiedono test gratuiti. L’europarlamento si è fatto carico di questa richiesta di gratuità, e vuole fugare «il rischio di creare discriminazioni su base socioeconomica», come dice una risoluzione votata a fine aprile, in cui gli eurodeputati hanno chiesto «che sia vaccini che test siano gratuiti». Ma alcuni paesi, come i Paesi Bassi, non sono disposti a sacrificare il business e hanno messo il veto a questa soluzione. L’unico compromesso ottenuto è che verranno utilizzati cento milioni del tesoretto di emergenza del bilancio europeo (Emergency support instrument) per mitigare i costi dei test, a cominciare da chi si sposta per lavoro. La Commissione si attiverà in questa direzione.

Le quarantene

Se abbiamo il certificato, i paesi potranno comunque imporci quarantene obbligatorie e test ulteriori al nostro arrivo? La risposta finale è: no, a meno che la situazione epidemiologica non sia particolarmente grave, secondo i criteri oggettivi stabiliti dal Centro europeo controllo malattie. Una iniziativa simile va notificata al Consiglio e alla Commissione: va valutato se la scelta è proporzionata. Dal punto di vista degli eurodeputati, il certificato serve nel momento in cui aiuta a ripristinare il diritto alla libera circolazione. I presidenti dei gruppi popolare, socialdemocratico, liberale e verde l’altro ieri hanno vergato una lettera in cui dicono espressamente che, una volta concepito il certificato, «qualsiasi altra richiesta diventa inaccettabile, che sia la quarantena o ogni ulteriore restrizione alla libertà di movimento». Inteso così, il certificato Covid serve a restaurare una Unione senza frontiere interne e a ribilanciare il diritto al libero spostamento, attualmente compresso in nome del diritto alla salute. Del resto il pass è stato fortemente voluto proprio dai paesi mediterranei come Grecia, Portogallo e Spagna, che già all’inizio della campagna vaccinale hanno spinto per una soluzione che garantisse la ripresa della stagione turistica. Ma non tutti i governi pensano a come sollevare le barriere dell’era Covid, anzi: paesi come la Germania, che in questi mesi si è riservata di chiudere le frontiere a dispetto delle indicazioni di Bruxelles, vorrebbero mantenere per sé la possibilità di ulteriori restrizioni. Da tempo, già prima della pandemia, alcuni paesi hanno fatto ricorso alla sospensione temporanea di Schengen, e la situazione si è esacerbata con le restrizioni dell’era pandemica. «Si è creata una situazione contra legem» dice il giurista Alberto Alemanno. «Ora il certificato, nato per riprendere il turismo, ha implicazioni giuridiche: la stessa Ue con il certificate rischia di cristallizzare l’idea di un pass da esibire alla frontiera, mentre nell’area Schengen i controlli erano stati aboliti».

Ecco perché gli eurodeputati hanno insistito che il certificato non deve diventare precondizione per muoversi. E per la protezione dei nostri dati, hanno anche precisato nell’accordo che l’infrastruttura necessaria per realizzarlo deve essere pubblica.

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