Asset russi e Mercosur, l’Ue «si gioca la faccia». Meloni tra i disturbatori

«Io che sono ottimista di natura, la vedo dura», dice l’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas proiettandosi sul giovedì del Consiglio europeo e delle scelte sugli asset russi. Nelle stesse ore, il commissario Ue al Commercio, traghettatore di accordi su mari agitati come quello dei dazi trumpiani, manda a dire alla Francia – tramite il Financial Times – che se l’Ue respinge il Mercosur, il trattato di libero scambio con il mercato latinoamericano, «perderà la faccia» (traduzione giornalistica del più composto «è in gioco la nostra credibilità»). Nel weekend, l’esecutivo Lecornu ha chiesto il rinvio del voto finale sull’accordo; già nel pomeriggio di lunedì, Reuters dava per scontato che Parigi potesse contare sul governo Meloni nella richiesta «perdi-faccia». La settimana iniziata a Berlino su regia di Friedrich Merz, e che si concluderà a Bruxelles col summit dei 27 leader europei, è considerata dagli osservatori internazionali come lo “stress test” di fine anno per l’Ue. Il paradosso dell’Europa titubante: sono gli asset russi a congelare l’Ue L’Unione sotto pressione «Se le resistenze francesi ammazzano il Mercosur e quelle belghe il piano sugli asset russi, questa si rivelerà come una settimana disastrosa per l’Ue», avverte Tom Nuttall, a capo dell’ufficio di Berlino dell’Economist; ed è solo un esempio delle voci che si levano indicando mare in tempesta. Del resto è bastato vedere le posizioni degli ambasciatori in conclusione della settimana precedente, quando Bruxelles è riuscita quantomeno a tenere immobili gli asset russi: la mossa è avvenuta divincolandosi tra i distinguo del governo Meloni, di Malta, della Bulgaria, il sopracciglio alzato del nuovo premier ceco e gli strali del suo alleato Viktor Orbán, per non parlare dei rimbrotti del Belgio, sede di Euroclear. Neppure il solito schema dei sovranisti amici di Trump, disgregatori dell’unità politica continentale, basta a spiegare davvero la pressione autodistruttiva alla quale è sottoposta l’Unione europea: non è forse il cancelliere tedesco in persona ad aver detto a Trump, la scorsa settimana, che «se non vuole come partner l’Europa consideri almeno la Germania»? Va a finire che l’unico punto sul quale il motore dell’Ue romba ancora è il vecchio combustibile fossile: questo lunedì, mentre i leader si radunavano a Berlino, si rincorrevano le voci sui piani di Bruxelles per far saltare lo stop ai motori a combustione entro il 2035; mossa per la quale erano alacremente a lavoro, negli scorsi mesi, tanto il cristianodemocratico cancelliere quanto la meloniana premier, a dimostrazione che l’attacco alle regole Ue è multifronte. «Leader europei deboli»: Trump infierisce sull’Ue, che si lascia bullizzare Gli asset: cartina al tornasole Il caso asset mostra quanto sia complessa la situazione. La premessa è che la decisione che verrà assunta dai leader nel Consiglio che inizia giovedì – come finanziare Kiev e se farlo mobilitando i fondi sovrani russi congelati o per altre vie – è strettamente legata agli sviluppi negoziali. Il fatto stesso che la scorsa settimana Bruxelles abbia immobilizzato quei fondi russi – e che lo abbia fatto schivando l’unanimità – va visto come un segnale mandato al duo Trump-Putin, che nel piano iniziale a 28 punti aveva già deciso come usare quei beni e a profitto di chi (per metà, degli Usa). Solitamente per imporre o rinnovare sanzioni serve infatti il sì dei 27, ma la Commissione von der Leyen ha inaugurato un uso estensivo dell’articolo 122, una leva di emergenza utilizzata per aggirare sia l’Europarlamento che l’obbligo di unanimità (von der Leyen fece leva sul 122 anche per ReArm). Dunque la scorsa settimana l’Ue ha intanto imposto per regolamento che gli asset russi restino bloccati sotto la sua giurisdizione – un messaggio sia a Mosca che a Washington – e lo ha fatto non tramite l’usuale regime sanzionatorio, che avrebbe richiesto il sì di tutti oltre che un rinnovo periodico, ma col 122, impedendo che i 210 miliardi detenuti in parte (185) presso Euroclear e in parte presso altre banche possano essere liberati prima che Mosca ripaghi Kiev dei danni. «Domani all’Aia sarà inaugurata una commissione per la raccolta delle richieste di danni: determineremo così le compensazioni dovute e la Russia dovrà pagare il conto», ha detto Kallas questo lunedì pomeriggio, dopo l’incontro coi ministri degli Esteri. Era previsto un confronto anche con Steve Witkoff e Jared Kushner, amico e genero – nonché inviati – trumpiani, ma «su questo non ho molto da riferire», ha fatto spallucce l’alta rappresentante: «Non so se si sia trattato di un cyberattacco, ma la tecnologia non funzionava, dunque non posso dire che abbiamo avuto una buona discussione». Meloni e l’Ue disordinata Non basta il blocco degli asset a farne una risorsa da mobilitare per Kiev, ovvero un «prestito di riparazione», tema che – per citare Kallas – «potrebbe fare la differenza ma è estremamente ostico». Su questo i 27 leader si esprimeranno giovedì, ma si registrano già sia le pressioni trumpiane sui singoli governi perché frenino il piano, sia le esibizioni dei distinguo: in sede di blocco degli asset col 122, l’Italia di Meloni ha voluto firmare con Belgio (alleato conservatore), Malta e Bulgaria una dichiarazione in cui precisa che ha detto sì a immobilizzare gli asset ma «ciò non pregiudica la decisione finale» in Consiglio. Anche Andrej Babiš, tornato da poco alla guida del governo ceco, e ora tra le file dei Patrioti, ha voluto precisare che «Praga non darà né soldi né garanzie» per il piano. Quanto a Orbán, «noi ungheresi non supportiamo confische né finanziamenti: allacciate le cinture, sarà una rough week». Sarà «una settimana tosta»: su questo il consenso è unanime. Marion Maréchal: «C’è già una maggioranza Giorgia». Il reset trumpiano dell’Ue