Si era presentato come «duro», invece Carney cancella la tassa sul digitale. Washington, che già puntava contro le regole tech Ue, corre a rivendicare il precedente. Il commissario Ue va a Washington: in attesa di un accordo, gli europei hanno già fatto molti omaggi a Trump
Cadono uno dopo l’altro, tendenzialmente in ginocchio: non c’è solo Mark Rutte, svergognato da Donald Trump con la pubblicazione dei messaggi in cui un adulante segretario della Nato si genuflette e svende l’intera Europa, pronta a «pagare TANTO» in spese militari. Ora è il momento della verità per Mark Carney, che aveva stravinto le elezioni canadesi presentandosi come il vendicatore dei dazi trumpiani, la nemesi della guerra commerciale statunitense. E che, invece di piegare Donald Trump, ha appena piegato al suo servizio la tassa digitale canadese, aprendo così un ulteriore varco per il presidente Usa che da tempo prende di mira le regole digitali dell’Unione europea.
Non a caso il tycoon è corso a dichiarare: «Mi aspetto che le tasse sui servizi digitali siano eliminate in tutto il mondo. Questo è un elemento chiave nei negoziati commerciali in corso». Questo martedì il commissario Ue al Commercio è a Washington a trattare: il messaggio – anche se l’Ue fa finta di non aver sentito – deve essergli arrivato.
Esporre il fianco
Ancor prima di stringere un accordo commerciale col tycoon, l’Ue lo ha omaggiato con molte concessioni; il recente esonero per le multinazionali Usa al G7 è la punta dell’iceberg. Del resto già Giorgia Meloni alla Casa Bianca – dietro lo slogan «Make West Great Again» – aveva regalato all’amico Trump un cavallo di Troia col quale sfondare tasse e regole digitali europee. Esporre il fianco al presidente Usa mentre va all’affondo significa rompere il fronte e creare precedenti. Lo si è visto quando Londra si è accordata con Trump digerendo una quota di dazi fissa: ciò ha contribuito a rendere concepibile che l’Ue faccia altrettanto.
«Noi crediamo nel libero scambio, e se gli Usa non vogliono più la leadership, sarà il Canada a guidare». Questo era il Mark Carney di inizio aprile: in campagna elettorale l’ex banchiere è stato dipinto (da Reuters) come pronto a «prendere a Trump la leadership globale»; ha detto (alla Bbc) che avrebbe trattato col tycoon «solo alle nostre condizioni» e di lui è stato detto (sempre dalla Bbc) che «Carney diventa la più grande forza economica contro il presidente Usa».
Eppure è bastato che venerdì l’inquilino della Casa Bianca utilizzasse il linguaggio del ricatto – interrompere «TUTTE le interlocuzioni sul commercio con il Canada» poiché «imporranno alle nostre aziende una tassa sui servizi digitali, il che è un affronto agli Usa» – perché nel giro di poco Ottawa facesse retromarcia. Domenica – un pugno di ore prima dell’entrata in vigore prevista per il 30 giugno – il governo canadese ha comunicato che avrebbe rescisso la tassa «in vista di un più ampio accordo commerciale con gli Usa che sia a beneficio di entrambe le parti: Carney e Trump hanno concordato di tornare al tavolo con l’orizzonte di un accordo entro il 21 luglio».
I colossi Usa come Meta, Google, Apple e Amazon – compreso quindi Jeff Bezos fresco di matrimonio veneziano extra lusso – hanno ottenuto così un poderoso sconto: la tassa in sé sarebbe stata del tre per cento, ma data la sua retroattività si sarebbe abbattuta sul loro ricavato canadese dal 2022 in poi; cifre miliardarie, la cui cancellazione costituisce un precedente scivoloso anche per le altre trattative che Washington sta portando avanti.
Una sfilza di concessioni
Ovviamente il fattore C – come Canada e Carney – ha soltanto una piccola porzione di responsabilità nel più generale scivolamento all’indietro, pure da parte dell’Ue. Da sùbito, Trump ha usato i dazi come leva per forzare il quadro normativo Ue sul digitale (Dsa, Dma e dintorni).
In via ufficiale Bruxelles smentisce di voler erodere le proprie regole – lo ha fatto poche ore fa la commissaria Ribera – ma si sa che Washington chiede all’Ue mano leggera con Big Tech. Pure poco dopo il Liberation Day (l’annuncio dei dazi) Ribera si è sentita fare richieste simili mentre era a Washington: Andrew Ferguson, presidente della FTC Usa, aveva mirato contro il Digital Markets Act e leggi che a suo dire «puntano alle aziende americane».
Va letto come un’apertura a queste richieste, il comunicato rilasciato da Meloni con Trump alla Casa Bianca ad aprile: quel «concordiamo che serva un contesto non discriminatorio in termini di tassazione sui servizi digitali» è un assist a Washington, che accusa le regole Ue di essere «discriminatorie» appunto.
In omaggio a Trump, l’Ue sta già portando avanti una auto-deregolamentazione (che Ursula von der Leyen maschera sotto lo slogan di «semplificazione»); i governi hanno già digerito dazi fissi almeno al dieci per cento come condizione base; i paesi europei membri della Nato hanno concordato di aumentare le spese militari; Berlino ha dato copertura politica alle mosse del duo Trump-Netanyahu; von der Leyen si è offerta di prendere a picconate il Wto, ovvero il multilateralismo, e prende sempre più le distanze da Pechino.
La ciliegina sulla torta (fiscale) è l’esenzione che il G7 ha appena garantito alle multinazionali Usa nel contesto della tassa minima globale. «Il che è incomprensibile: non c’era nessuna valida ragione per cedere al diktat di Trump», nota l’economista Gabriel Zucman, massimo esperto in materia. «Gli Usa non hanno mai ratificato l’accordo, ma gli altri paesi avrebbero comunque potuto applicare la tassa senza temere le minacce trumpiane, che non sarebbero state messe in atto perché dannose per gli Usa stessi». Eppure a Trump il G7 (Italia inclusa), la sventurata, rispose.
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