Tutti in Ue entro il 2030, le braccia di Bruxelles rimangono aperte: lo hanno promesso all’ultimo summit sui Balcani occidentali che si è tenuto a Roma qualche giorno fa i leader europei. Serbia, Albania e Macedonia del Nord «hanno le potenzialità per rispettare i tempi», invece «forse per la Bosnia-Erzegovina potrebbe volerci un po’ più di tempo», ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani.

Al vertice era presente anche l’Alto rappresentante internazionale per la Bosnia ed Erzegovina, Christian Schmidt, che dal 2021 occupa la poltrona più importante dell’autorità che supervisiona il rispetto degli accordi di Dayton del 1995, quelli che hanno messo fine al conflitto a Sarajevo esattamente trent’anni fa.

Ci sono da tutti i lati «buone intenzioni, ma molte cose vanno ancora aggiustate», dice l’ex ministro dell’Agricoltura di Berlino del terzo governo Merkel. «Questi paesi entreranno tutti insieme, come un solo treno? O come più vagoni, che viaggiano singolarmente?», si chiede Schmidt: «Non credo che tutti gli stati riusciranno a onorare gli impegni al 100 per cento per la data prevista, a compiere tutti i progressi necessari. Alcuni potrebbero dover aspettare di più di altri» per l’entrata in Ue.

L’eredità della guerra

Il conflitto è terminato ormai tre decadi fa, ma la situazione in Bosnia rimane estremamente intricata (per questo, qualcuno ci vede già in filigrana il futuro dell’Ucraina che sarà). Per sintetizzare, l’Alto rappresentante racconta di quella volta in cui un alto funzionario bosniaco gli ha citato la frase più celebre di Carl von Clausewitz («La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi»): «Qui in Bosnia, mi disse, abbiamo rovesciato la sentenza: la politica non è che la continuazione della guerra con altri mezzi».

È una battuta amara colma di verità ancora più amare: ancora oggi le divisioni etniche vengono strumentalizzate per giochi politici in un paese che rimane ancora scisso in nazioni quando va alle urne. È vero: da trent’anni «non c’è violenza, non c’è più la guerra, ma non abbiamo raggiunto l’obiettivo di una società completamente guarita dalle ferite del conflitto», ammette Schmidt. Anzi.

«Oggi i ragazzini croati studiano la storia dal punto di vista croato, così i serbi e così i bosniaci». È forse questo il “peggior errore” commesso fin qui nella gestione del dopoguerra: «Non avere saputo raggiungere una visione comune della storia, per sviluppare un punto di vista critico; anche da questo parte una nuova visione del futuro».

Costretto alla supervisione della caotica vita politica bosniaca, accusata da più lati – e soprattutto dai giovani – di essere corrotta e ingabbiata in schematismi etnici vetusti, Schmidt qualche volta è però costretto a intromettersi per la mancanza di volontà d’azione delle autorità, che si rifiutano di colmare buchi che più il tempo passa, più diventano grandi.

È accaduto per la legge elettorale, emendata con un pacchetto di misure dall’Alto rappresentante l’anno scorso: l’obiettivo era garantire trasparenza e pari opportunità di partecipazione alle elezioni che hanno tra i processi più complicati del mondo, l’identificazione elettronica degli elettori e, tra le altre cose, impedire le candidature di condannati per crimini di guerra e genocidio.

Tutto in Bosnia può riaccendere le tensioni, e, soprattutto per questo, l’incarico del politico tedesco è una specie di corsa a ostacoli. Uno dei più grandi e insormontabili ha anche un nome: si chiama Milorad Dodik. A capo della Repubblica Srpska (una delle entità della Bosnia), filo Belgrado e filo Mosca, già finito sotto processo per non aver rispettato l’autorità dell’Alto rappresentante, sempre rombante nelle sue dichiarazioni antieuropeiste, Dodik minaccia una volta al mese la secessione dalla Federazione.

L’ultima mossa con cui sta mettendo a repentaglio l’entrata del paese in Ue è una legge sugli “agenti stranieri”, la stessa già in vigore nella Federazione russa. Ultimamente è stato fotografato col cappellino rosso “Maga”: «Suggerisco a Dodik», sorride Schmidt, «di decidere se è un sostenitore di Trump o di Putin. Gli conviene ricordare che le sanzioni Usa contro di lui sono ancora valide. Dovrebbe agire nell’interesse dell’entità, non di sé stesso».

Giovani in fuga

L’onda di incertezza in arrivo da oltreoceano per il ciclone Trump ha già avuto i suoi primi effetti sulla guerra in Ucraina, ma non ancora nei Balcani occidentali, su cui da sempre tiene gli occhi puntati Mosca che lì vuole allargare la sua sfera di influenza. Trump o meno, l’obiettivo rimane sempre lo stesso, dice Schmidt : «In tempi brevi devono imparare a rimanere in piedi sulle loro gambe».

Al momento però non è ancora nata una classe politica giovane ed europeista, abbastanza forte da essere capace di invertire un corso politico imputridito in vecchie logiche controverse.

Oggi, per la maggioranza dei giovani, non esistono più divisioni tra serbi, croati e bosniaci, cristiani, musulmani, ebrei: per loro il nemico comune è la stagnazione, l’impoverimento, l’immobilità. Ma, a differenza dei coetanei balcanici, quelli di Bosnia ed Erzegovina non scendono in piazza: «Perché? Anche io mi pongo la stessa domanda. In Bosnia non c’è tradizione di protesta, piuttosto di adattamento drammatico alla situazione corrente.

Ma viene sempre sottostimata la differenza che può fare la società civile», dice Schmidt.

Non solo in piazza o per le strade: giovani mancano in tutto il paese per un’emorragia migratoria che l’Alto rappresentante non dimentica mai di ricordare. Una delle vere catastrofi di Sarajevo è la fuga di cervelli e forza lavoro, di quelle potenzialità migliori che potrebbero cambiare faccia a quel pezzo di Balcani.

Secondo una delle ultime statistiche, ogni anno lasciano la Bosnia quasi 40mila persone e ne rientrano meno della metà. Secondo uno studio della Bhas, Agenzia statistica nazionale, entro il 2050 metà della popolazione della Bosnia potrebbe scomparire.

La povertà di una nuova offerta politica a trent’anni dalla fine della guerra si traduce non solo in delusione e rassegnazione dei cittadini, ma in concreti addii, svuotamenti massivi del territorio, villaggi fantasma abbandonati dai delusi. «Una delle sfide è far avvicinare i giovani al processo decisionale».

Da anni Schmidt continua a proporre iniziative, ma da anni continua a rimanere deluso e non lo nasconde. 

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