«Con la Russia servono rapporti normali», dice il governo ungherese. «Dobbiamo rinsaldare le nostre relazioni bilaterali», fa eco Vladimir Putin. Per troppo tempo l’Europa ha fatto finta di non vedere la natura illiberale del regime di Viktor Orbán e l’uso che Putin ne ha fatto. Ora anche l’ultimo argine è caduto: non c’è opposizione che tenga, il leader di Fidesz ha stravinto in Ungheria, e nel contempo è stato riconfermato con ampio margine anche l’altro sodale di Putin e Xi Jinping, il presidente serbo Aleksandar Vucic.

Messaggio all’Europa

I due leader sono gli stessi che da tempo, sotto lo sguardo inerte dell’Ue, stanno destabilizzando l’area dei Balcani occidentali. Con la loro vittoria, il rischio che il conflitto si estenda in Bosnia ed Erzegovina si fa più concreto. Anche il ruolo di ideologo e campione della deriva illiberale che Orbán si è ritagliato, e che coltiva da anni attraverso connessioni internazionali, risulta amplificato con la sua riconferma. «Chi in Europa non capisce che serve un uomo forte non ha capito nulla», ha detto questo lunedì, rivelando le sue pieghe autoritarie. Dopo le elezioni di domenica può godere di una maggioranza inedita per ampiezza e, come se non bastasse, nel parlamento ungherese fa il suo ingresso Mi Hazánk, una forza di estrema destra che si richiama a formazioni paramilitari e neonaziste. Oltre a Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che dall’Italia si complimentano con il premier ungherese, c’è anche l’estrema destra francese che esulta. Domenica la Francia vota il suo presidente della Repubblica e le elezioni ungheresi galvanizzano i sodali francesi di Russia e Ungheria, Éric Zemmour e Marine Le Pen. L’Europa rischia anche l’effetto contagio. Non a caso Viktor Orbán interpreta la sua vittoria come «un messaggio a Bruxelles». La natura di quel messaggio, sia in termini geopolitici sia di salute della democrazia, diventa sempre più nitida con il passare delle ore.

Sodalizio con Putin

Già domenica il braccio destro di Orbán, Zoltán Kovács, che è segretario di stato per le relazioni internazionali, ha perso ogni pudore nel definire i rapporti tra Ungheria e Russia. Alla domanda su quali debbano essere le relazioni tra i due paesi, ha risposto: «Mi auguro che siano il più normali e pragmatici possibile». A suo dire «non abbiamo alternative».

Per una intera campagna elettorale il premier ungherese ha camuffato le sue relazioni con il Cremlino sotto la narrativa degli «interessi nazionali», di «pace e stabilità», e della necessità di tenere sotto controllo i prezzi del gas. Non ha mai nominato né accusato Putin, nonostante l’aggressione dell’Ucraina. Domenica alla Balna, il quartier generale di Fidesz per la giornata elettorale, nelle stesse ore in cui le immagini di Bucha facevano il giro del mondo e i leader europei esprimevano parole di condanna, Kovács, intervistato da Domani, non ha esitato a invocare «rapporti normali» con Mosca. Il giorno dopo, una dichiarazione del tutto in sintonia è arrivata per via ufficiale dal Cremlino. «Sviluppo delle relazioni bilaterali». Così lo chiama Vladimir Putin, nel suo messaggio di congratulazioni al sodale ungherese. Mosca si dice fiduciosa che un «ulteriore» sviluppo di quelle relazioni – a conferma che sono in corso e consolidate da tempo – corrisponda agli interessi degli abitanti ungheresi, richiamando così le parole chiave della campagna elettorale di Orbán: l’«interesse nazionale» come alibi che giustifica le ambiguità del premier. Alla vigilia delle elezioni, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è rivolto a lui con accuse mirate: «A Orbán manca l’onestà intellettuale, l’ha forse persa a Mosca? L’Ungheria non solo non consente il transito di aiuti, ma non fa nessuno sforzo contro la guerra. Non esercita neppure leadership morale». A elezioni concluse, il premier ungherese nel discorso di vittoria ha inserito Zelensky tra gli «avversari» che ha dovuto affrontare – e battere – in queste elezioni.

Intanto domenica notte, a elezioni terminate, nella capitale ungherese sono state sfregiate le immagini di una mostra fotografica sulla guerra in Ucraina. Era stata inaugurata una settimana fa dall’ambasciatore ucraino e dal sindaco di Budapest, esponente di opposizione, e già allora c’era stata la presenza di disturbatori che urlavano slogan filo-russi. Un episodio dello stesso tenore si è verificato durante il discorso di vittoria di Orbán nel piazzale antistante la Balna. Tra i supporter che lo hanno accolto con un’ovazione, alcuni hanno aggredito e strappato il microfono a una giornalista della Cnn che parlava in inglese con una collega italiana, accusando entrambe di essere «sostenitrici di Biden».

Lo strapotere illiberale

La deriva illiberale che Viktor Orbán teorizza e pratica da oltre un decennio non ha più argini. Dalle elezioni di domenica l’opposizione esce annichilita. Péter Márki-Zay, il candidato alla premiership che ha sfidato Orbán con sei partiti alle spalle, ha perso pure nel collegio nel quale correva e nelle sue terre: in quella stessa contea di Csongrád Csanád, a Hódmezővásárhely, nel 2018 era stato eletto sindaco. Jobbik, Coalizione democratica, Dialogo, Momentum, i verdi di Lmp e il partito socialista, i sei partiti che spaziano da destra a sinistra e che per la prima volta hanno fatto fronte comune, messi insieme non sono riusciti né a battere Orbán né a erodere la sua maggioranza. Al contrario, Fidesz conquista nuovi elettori, penetra anche la capitale, che è la roccaforte dell’opposizione, e supera per voti e seggi i risultati della tornata precedente. Adesso Orbán non conta più su 133 seggi su 199, ma su 135, e ancora una volta supera la soglia dei due terzi, una maggioranza tale da consentirgli di plasmare l’architettura istituzionale del paese. Nell’aprile 2011 grazie alla maggioranza di due terzi è stata approvata la nuova “Legge fondamentale” dell’èra orbaniana. La precedente Costituzione del 1949, dopo le modifiche del 1989, non era mai stata scardinata. Il premier non ha esitato a farlo.

Proprio la deriva illiberale e la presa sempre più forte di Orbán sui media hanno spinto l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) a svolgere una inedita missione elettorale in un paese membro dell’Ue. Già in un rapporto stilato a gennaio, e anche questo lunedì a processo elettorale concluso, l’Osce ha rilevato «la mancanza di un level playing field». Nonostante la correttezza sostanziale del processo in sé, dicono gli osservatori, mancavano condizioni paritarie. L’ex ambasciatrice Jillian Stirk a nome della missione ha citato «la mancanza di un confronto pubblico, la copertura mediatica schierata a favore di un campo», le spese per la campagna che sono molto più alte per Fidesz «senza che si mantenga una distinzione tra stato e partito». Ma queste condizioni strutturali, già note prima di domenica, non eliminano la vittoria larga di Orbán. Spiegano semmai la natura illiberale della presa di Orbán sulla società ungherese. L’opposizione ammette la propria sconfitta, «e non può essere spiegata solo con il modo in cui funziona il sistema, con il predominio del potere sulle risorse o con la propaganda menzognera», dice l’eurodeputata ungherese Anna Júlia Donáth, presidente del partito liberale di opposizione Momentum.

Avanzata della destra estrema

Mentre l’opposizione ottiene solo 57 seggi, fa il suo ingresso con ben sette parlamentari la formazione estremista Mi Hazánk. Il leader, Toroczkai László, ha nel curriculum spedizioni violente contro gay e migranti e un apparato di riferimento culturale neonazista. In origine faceva parte del partito di destra Jobbik, dal quale poi si è staccato quando Jobbik ha scelto la via della normalizzazione che lo ha portato all’approdo recente nel campo unito dell’opposizione. In questa campagna, cavalcando l’argomento della «dittatura sanitaria», ha garantito al premier una valvola di sfogo alternativa al campo di opposizione. L’esito è che l’Ungheria e l’Ue oltre a far fronte allo strapotere orbaniano si confrontano con l’approdo della destra estremista in parlamento.

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