Che cosa succede in un paese se la legge tutela il diritto all’aborto ma il governo non è d’accordo e fa di tutto per ostacolarlo? Anzi, più esattamente, non fa nulla pur di ostacolarlo? Il paese è l’Irlanda del Nord dove l’aborto è stato depenalizzato, anche se non da molto. Eppure, come dice Les Allamby della Northern Ireland human rights commission, «il servizio spesso non è garantito. Così per le donne un’opzione è quella di andare ad abortire in Inghilterra. Farlo è gratis, ma c’è un mare di mezzo, otto ore di traghetto. Bisogna viaggiare in piena pandemia, con tutti i rischi e le difficoltà che ciò comporta: Londra è in allerta per i contagi record. In alternativa c’è chi va a sud, nella Repubblica d’Irlanda, e lì abortisce a pagamento. Alcune ricorrono alla terza opzione: cercano su internet, se possibile prenotano una pillola abortiva, ma non possono usufruire del supporto clinico». Anche per questo l’organizzazione per i diritti umani ha deciso di avviare questo lunedì un’azione legale contro il governo, «non per pochi casi isolati, ma per una situazione generale preoccupante. Il nostro obiettivo è smuovere le cose».

A Belfast quello all’aborto è un diritto ancora fragile. Da quando è stato riconosciuto, non sono stati elargiti i fondi perché possa diventare davvero esigibile. La questione è politica e ha conseguenze molto concrete sulla vita delle donne. «A inizio pandemia – dice la femminista Goretti Horgan di Alliance for Choice, un’unione di movimenti nordirlandesi per il diritto all’aborto – due giovani donne che avevano prenotato un aereo per l’Inghilterra per abortire si sono ritrovate il volo cancellato per le restrizioni da Covid-19 e la disperazione le ha spinte a tentare il suicidio. La storia ha così scosso il paese che da allora i medici esercitano il conscientious commitment (l’impegno secondo coscienza), che è l’opposto della conscientious objection (obiezione di coscienza): si stanno impegnando a garantire alle donne il loro diritto nonostante il governo remi contro e non gli dia soldi per farlo».

Un diritto a metà

Ma come si è arrivati a questo punto? Le attiviste nordirlandesi si impegnano per veder riconosciuto il diritto all’aborto almeno dagli anni Settanta, e a partire dai Novanta si sono coalizzate nella Alliance. Ma la svolta è avvenuta tre anni fa, con il “disgelo” dei diritti nella parte sud dell’isola, e cioè nella cattolicissima Repubblica d’Irlanda dove prima del 2018 l’aborto era consentito solo quando la vita della madre era a rischio, quindi non in caso di stupro, incesto o anomalie del feto. A maggio di tre anni fa, con un referendum, oltre il 66 per cento dei cittadini ha votato per legalizzare l’aborto, e quel risultato ha avuto effetti anche sull’Irlanda del Nord, che fa parte del Regno Unito. Qui il governo devoluto non ha mai voluto legalizzare l’aborto, soprattutto per la accesa contrarietà del partito unionista (Democratic unionist party), che è antiabortista e dalle cui file viene la attuale prima ministra Arlene Foster. «In realtà la società civile nordirlandese è da tempo più avanti dei suoi politici – dice Horgan – e infatti gli studi accademici fatti sia nel 2016 che nel 2018 riportano che tre nordirlandesi su quattro sono favorevoli all’aborto, e quattro su cinque ne sostengono la depenalizzazione». Le attiviste chiedevano da tempo al parlamento del Regno Unito di intervenire, visto che il governo locale non lo faceva e che, come se non bastasse, era anche in crisi. «Qui nel Nord dell’Irlanda, il nostro governo devoluto si regge su fragili equilibri consociativi, un po’ come in Belgio, e all’epoca non era in grado di legiferare neppure sulla cura dell’infanzia, figuriamoci sull’aborto, su cui una parte di esso era fortemente contrario. È servito il segnale forte dalla repubblica d’Irlanda perché Londra superasse ogni reticenza», aggiunge Horgan.

Ostacoli concreti

Nell’estate 2019, con il governo di Belfast in piena crisi, il parlamento britannico è intervenuto con un provvedimento esigendo che l’Irlanda del Nord si allineasse con gli impegni internazionali presi dal Regno Unito sul fronte dei diritti umani. Con una mossa analoga Londra ha spinto anche per la legalizzazione dei matrimoni fra persone dello stesso sesso. «State invadendo le competenze del governo nordirlandese», ha detto l’unionista Nigel Dodds. «Quel voto rappresenta uno dei momenti più bui nella storia dell’Irlanda del Nord», è stata la reazione ufficiale del suo partito, il Dup. Fatto sta che da ottobre 2019 l’aborto è stato depenalizzato e dal 31 marzo 2020, in coincidenza con il dilagare della pandemia, sono in vigore, almeno sulla carta, le nuove regole: abortire è legale entro le prime dodici settimane, e pure dopo, entro 24, se la salute fisica o mentale della madre è a rischio; si può sempre abortire se è a rischio la vita della madre e in caso di gravi anomalie del feto. In teoria da questa primavera nessuna è costretta a viaggiare per poter abortire.

Nella pratica non è andata proprio così. Il dipartimento della Salute infatti rifiuta di stanziare i fondi necessari perché il servizio venga garantito. «Il ministro dice che la questione rientra tra quelle controverse e che quindi serve l’appoggio formale di tutto il governo, nel quale c’è guarda caso una forte influenza del partito antiaborto» dice Horgan. La Northern Ireland human rights commission ha dovuto intraprendere l’azione legale contro il governo tutto, e contro il dipartimento della Salute in particolare, per «fallimento nel finanziare e quindi garantire i servizi di aborto nel paese». La mancanza di fondi pubblici significa, per esempio, che dal 5 gennaio nell’unità sanitaria del sud est il servizio per abortire non è più disponibile. Allamby, a capo della Nihrc, dice che «in mancanza di finanziamenti appositi per garantire il diritto all’aborto, le strutture provano a provvedere lo stesso, nonostante siano in piena emergenza Covid-19. Ma a volte basta che qualcuno del personale medico vada in maternità, come è successo nel sud est, perché non ci siano i soldi per rimpiazzare il personale».

La situazione è estremamente precaria. A nord, i servizi si sono interrotti a ottobre per mancanza di risorse, per poi riprendere il 4 gennaio. La speranza è che, pure stavolta, Westminster batta un colpo.

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