«Io e miei figli viviamo in uno stato di paura, sospesi nell’incerto. Se torno a Damasco con loro, verrò arrestata all’aeroporto e saremo morti». È una storia come quella di tanti quella della trentottenne Rasha Kairout, madre di due adolescenti di 13 e 15 anni e rifugiatasi in Danimarca nel 2015 per scappare dagli orrori della guerra civile siriana, che adesso rischia di essere rispedita indietro dal governo di Mette Frederiksen. Secondo Copenaghen l’area intorno a Damasco è sicura e per questo ha iniziato a revocare la residenza di alcuni rifugiati chiedendo loro di lasciare la Danimarca. «Mia madre e le mie sorelline non possono tornare in Siria. Se lo fanno mia madre rischia di essere arrestata e torturata per aver impedito a me e mio fratello di entrare nell’esercito siriano. Ho già perso mio padre e la nostra casa: lì non c’è più niente di nostro», dice Mohamed Alata, 18 anni, che rischia di dover salutare la sua mamma e le sue sorelline, alle quali non è stato rinnovato il permesso di soggiorno.

Zero richiedenti asilo

La scelta del governo di Copenaghen viene da lontano: già da tempo la Danimarca è diventata un posto meno accogliente per i rifugiati. Nel 2018 il governo conservatore aveva chiesto ai figli di immigrati di frequentare un corso sui valori danesi, dopo aver ridotto la durata dei permessi di soggiorno da 5-7 anni ad appena 1-2. Un paradigma che non è cambiato nemmeno con il governo dei socialdemocratici, guidato dalla premier Frederiksen. «Il nostro obiettivo è arrivare a ottenere zero domande d’asilo. È un obiettivo che non possiamo chiaramente promettere ma a cui vogliamo arrivare», aveva dichiarato la premier in una seduta della Camera dello scorso gennaio. «La Danimarca è stata aperta e onesta sin dal primo giorno. Abbiamo detto chiaramente ai rifugiati siriani che il loro permesso di soggiorno è temporaneo e può essere revocato se la necessità di protezione cessa di esistere», ha dichiarato il ministro dell’Immigrazione Mattias Tesfaye all’Afp. La decisione delle autorità danesi sui rifugiati siriani si basa su una valutazione del servizio per l'immigrazione, che sostiene che l’area intorno alla capitale Damasco e nel distretto circostante di Rif Dimashq siano abbastanza sicure da non dar seguito alle richieste di asilo dei rifugiati. Una valutazione che nasce però da un rapporto dell’ottobre 2020 stilato attraverso riunioni Skype ed e-mail e per questo fortemente criticato dalle associazioni umanitarie, come il Danish Refugee Council. La Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati permette effettivamente la revoca dello status di asilo se i paesi di provenienza tornano ad essere sicuri, in questo senso la scelta delle autorità danesi sarebbe assolutamente legittima. Peccato che il concetto di paese sicuro non si possa applicare al paese in questione, come sostiene l’Alto Commissario ONU per i rifugiati sul quotidiano Dagbladet Information. La decisione delle autorità danesi è stata fortemente criticata anche dall’Unione europea, che ha sottolineato come Copenaghen sia stato finora il primo e unico stato del continente ad adottare una simile decisione. Secondo Statistics Denmark sono circa 35.500 i siriani che vivono attualmente in Danimarca, più della metà arrivata nel solo 2015, e sarebbero già un centinaio i permessi di soggiorno revocati, ma molti altri sono già in fase di revisione.

I centri per il rimpatrio

La decisione del governo di Frederiksen presenta però una falla: il governo danese non ha infatti un accordo con il governo di Bashar al Assad per il rimpatrio dei rifugiati e perciò chi non vuole trasferirsi in Siria, accettando magari l’assegno che staccano le autorità danesi per chi decide di rientrare, deve passare dai centri per il rimpatrio. Centri formalmente aperti ma dove viene impedito agli occupanti di svolgere alcun tipo di attività e dove non hanno alcun reddito o diritto all’impiego, come racconta la Cnn. Per molti finire lì dentro sarebbe un incubo, come racconta Rasha. «Ho vissuto qui per sei anni, mi sono data da fare prima come cameriera in un hotel e poi nell’assistenza agli anziani. Ho studiato il danese e sono andata a scuola, come i miei due figli. Mi sento morire dentro perché, nonostante abbia fatto di tutto per mantenere il lavoro e non far mancare niente ai miei figli, rischiamo di finire in un centro dove verremo spogliati dei nostri diritti e con il pericolo di finire a Damasco, sotto il regime di un dittatore criminale che ha ucciso la sua gente». Lo stesso racconta Mohamed. «Mia madre soffre di ansia, depressione e stress post-traumatico al solo pensiero di dover tornare lì, in Siria. Le mie due sorelle parlano danese fluentemente e non conoscono l’arabo. In Danimarca potrebbero ottenere un'istruzione e contribuire alla società e al sostentamento di nostra madre, come già facciamo io e i miei fratelli. Ora le mie sorelle rischiano di dover crescere in un Centro per il rimpatrio e farsi rubare il futuro. La decisione del governo danese di distruggere così una famiglia non è umana».

Chi si ribella al passaggio in questi centri può fare causa presso il Refugee Appeals Board ma l’esito appare scontato, come racconta l’organizzazione umanitaria Refugees Welcome Denmark che evidenzia come le cause finora intentate siano state tutte perse. Sembra così inevitabile il ritorno in Siria, dove dopo 10 anni di guerra il regime di Bashar al Assad ha ripreso il controllo di gran parte del paese, oggi governato grazie al controllo capillare della polizia segreta. Secondo la rete siriana per i diritti umani più di 100mila persone sono scomparse dal 2011, mentre arresti e detenzioni arbitrarie sono diventate ormai abitudine nelle ex aree ribelli del paese. Ancora oggi molti territori controllati dal regime sono politicamente instabili e non c'è stata quasi nessuna ricostruzione, mentre servizi come l'acqua e l'elettricità continuano ad essere scarsi e la sterlina siriana viaggia con un’inflazione pari al 230 per cento. Un quadro non proprio idilliaco.

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