L’Ue è rimasta incastrata: da una parte Donald Trump, al quale ha già fatto strabordanti concessioni, alza il tiro per forzare a proprio vantaggio i negoziati in vista della scadenza del 9 luglio; dall’altra l’attuale classe dirigente europea si è chiusa da sola ogni via di uscita alternativa, scegliendo la via dell’accondiscendenza prima ancora di concludere la trattativa. Porta in dote a Trump pure la postura anti Cina. Ed è quindi, certo, Trump che strattona l’Europa; ma è pure l’Europa a essersi ficcata nell’angolo da sola.

I ricatti trumpiani

Dopo l’ultimo giro di negoziati svolti a Washington dal commissario Ue al Commercio Maroš Šefčovič, la Commissione non ha fatto in tempo a lasciar scivolare piccole note di ottimismo, che sùbito da oltreoceano sono calate pressioni. Il momento è «very sensitive», dicono da Bruxelles: è delicato perché questo venerdì Šefčovič ha riferito agli stati membri le condizioni di una stretta di mano. Così nelle stesse ore, per intimidire gli europei, Trump ha fatto volare minacce: l’ennesima tassa, il 17 per cento, sui prodotti agricoli europei, oltre che presunte lettere diffuse a mezzo mondo col ricatto di altri dazi.

«La priorità di Bruxelles resta negoziare, anche se ci prepariamo all’eventualità che non venga raggiunto un accordo soddisfacente», reagisce il portavoce al Commercio della Commissione, Olof Gill. «Abbiamo avuto la discussione con gli stati membri e ora la Commissione tornerà a trattare nel merito con gli Usa». Il 9 luglio – data entro la quale von der Leyen si era detta speranzosa di stringere con gli Usa almeno un accordo «di principio» – è più vicino, dunque anche le pressioni negoziali aumentano. E sono impietose, proprio come Trump non ha avuto scrupolo nell’esibire il vassallaggio – ops, il messaggio – di Mark Rutte: l’Ue ha già concesso di tutto, oltre a mettere nel congelatore qualsiasi ipotesi di contromisura, e il tycoon infierisce.

Si dice che voglia altre concessioni per le corporation Usa, come se non bastasse quanto ha già ricavato. O tutto il resto su cui l’Ue accondiscende: una quota permanente di dazi, lo zelo nella deregulation, l’aumento delle spese militari, le deroghe fiscali per le multinazionali Usa e l’arrendevolezza con Big Tech, il finanziamento del debito Usa con l’acquisto di buoni del tesoro. «L’aumento delle spese europee in difesa può facilitare un accordo sui dazi», ha rivendicato Giorgia Meloni nelle ultime ore.

Senza preparare piani B

Lunga è la lista di concessioni monetizzabili e non, dei cedimenti economici e di quelli politico-valoriali. Ciò che von der Leyen non annuncerà, ma che già accade, è che la classe dirigente Ue sta consegnando in dote a Trump l’intera sua postura geopolitica: sta già rinunciando alle proprie capacità di manovra autonoma nei confronti della Cina, si sta proiettando nello scontro indopacifico appresso a Trump, e ciò mentre lo stesso presidente Usa continua a lasciare gli europei nei guai sull’Ucraina; il piano è far pagare a loro eventuali consegne militari a Kiev. «Per avere i Patriot Usa ci può aiutare l’Europa», aveva detto Zelensky dopo l’incontro con Trump all’Aia; e questo venerdì, mentre Rutte chiedeva «flessibilità Usa», Berlino si preparava a sganciare miliardi per ordini bellici. Non solo Trump non ha posto fine alla guerra in Ucraina, ma si prepara a trarre vantaggio economico dal suo proseguimento a discapito degli europei, ingrossando il portafogli delle commesse militari Usa. L’Ue, grande mercato unico, potenza normativa, avrebbe avuto margini per svicolare le trappole trumpiane. Invece no. Anche il canale aperto di recente con Pechino si è rivelato presto quel che era dall’inizio per von der Leyen: un trompe-l'oeil.

Ombre cinesi

(Il ministro degli Esteri cinese con l'alta rappresentante Ue. Foto Epa/Ansa)

Lo si è visto dopo l’incontro tra il falco estone Kaja Kallas, alta rappresentante Ue, e il ministro degli Esteri cinese: da Bruxelles sono filtrate versioni negative sull’incontro, e a stretto giro da Pechino sono arrivati segnali della tensione in corso. Il grande vertice Ue-Cina previsto per fine luglio si sarebbe ridotto da due giorni a uno solo; su questo la Commissione non smentisce, si limita a dire che «poiché nessun calendario ufficiale era stato diffuso, nessun calendario è stato emendato». Il tour di Wang Yi nelle capitali è un tentativo di trovare chiarimenti sulla posizione Ue: da una parte la Cina rassicura Berlino che gli europei non avranno problemi con le terre rare, dall’altra lancia dazi contro il brandy (ma non il cognac, esentando i francesi).

Da subito – appena Trump ha dichiarato guerra commerciale all’Ue – von der Leyen gli ha fatto intendere che sarebbe per lui un affare avere l’Ue schierata contro la Cina («concordo con Trump che altri stiano avvantaggiandosi in modo scorretto delle attuali regole del sistema commerciale globale»). Ma all’inizio qualche spiraglio tattico era stato aperto: già a marzo Šefčovič interloquiva con Pechino sui dazi alle auto elettriche, poi ad aprile il premier spagnolo aveva fatto da apripista col viaggio cinese, infine era stato lanciato per fine luglio il vertice Ue-Cina. Ma più i negoziati con gli Usa vanno nel dettaglio – pretese anticinesi incluse – più la posizione di von der Leyen riprende i colori di marzo 2023, quando si affrettò a promettere a Joe Biden un divorzio che neppure la sua Germania era pronta a sostenere.

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