Prima c’è stato il tradimento di Emmanuel Macron. Le sue grandi promesse iniziali ai cittadini estratti a sorte per la “convenzione sul clima” sono state rispettate solo in piccola parte. Poi una dinamica simile è andata in scena su scala europea, con i sorteggiati della Conferenza sul futuro dell’Europa: le loro conclusioni sono rapidamente finite nel dimenticatoio.

Neppure Hélène Landemore, la politologa di Yale che vorrebbe fare dell’estrazione a sorte il nuovo regime democratico, può ignorare tutto questo. E infatti non esita a definire «participation washing» quel che è successo a Bruxelles. Ma su Parigi ha ancora speranze: in questi giorni si trova nel suo paese d’origine, la Francia, per seguire la Convention citoyenne sur la fin de vie. È sempre una creatura macroniana, questa “convenzione cittadina sul fine vita”. Il presidente la ha annunciata a marzo, poi il governo guidato da Élisabeth Borne l’ha ufficialmente aperta questo venerdì. I sorteggiati dovranno rispondere a una domanda: «Il quadro giuridico attuale per il fine vita va cambiato oppure no?». Da un lato i movimenti per una morte dignitosa, dall’altra le posizioni della chiesa cattolica: così Macron si muove su questo terreno come sulle uova. Coltiva la speranza dichiarata che uno scambio di argomenti nel parlamentino dei sorteggiati possa «apaiser», pacificare le tensioni sul tema. E nutre pure la speranza – questa, non dichiarata – di legittimare così una sua scelta in materia.

Professoressa Landemore, estrarre a sorte i cittadini è la nouvelle vague, la nuova tendenza dove deve spingersi la democrazia? Per lei la democrazia rappresentativa è un’esperienza storica fallimentare e agli sgoccioli?

Non posso dire che abbia fallito: senz’altro la democrazia rappresentativa è meglio di altri regimi. Funziona soprattutto in paesi come quelli scandinavi, dotati di una cultura già incline alla ricerca di un consenso e all’attenzione alle pari opportunità, il che li preserva in particolar modo dal fallimento. Ma quel che ha clamorosamente fallito è l’idea che si tratti di un governo del popolo. La democrazia elettorale si sta dimostrando un governo per il popolo (for the people), non del popolo (by the people).

Vede le assemblee dei sorteggiati come un’alternativa o un complemento alla democrazia rappresentativa?

Non possiamo rivoluzionare il quadro istituzionale attuale, ma trasformarlo dall’interno sì. Più gli esperimenti di “mini-pubblici” avranno potere e impatto, più acquisiranno legittimità. Si arriverà al punto in cui le assemblee di sorteggiati avranno tale credibilità che i due livelli – elettorale e lottocratico – entreranno in competizione tra loro. Al momento mi trovo nella terza camera francese (il Consiglio economico, sociale e ambientale), che è stata riformata in camera della partecipazione. Qui inizialmente la società civile organizzata si incontrava per produrre raccomandazioni non vincolanti; ma non erano influenti, e si era persino pensato di sciogliere quest’istituzione. Poi è stata reinventata come camera partecipativa per i “mini-pubblici”. Qui c’è stata la convenzione sul clima; ora si tiene quella sul fine vita, i cui appuntamenti si svilupperanno fino a marzo. Fosse per me, la democrazia dei sorteggiati sarebbe alternativa a quella attuale; ma capisco che si debba costruire un nuovo equilibrio all’interno del sistema.

Tra i criteri cardine di una democrazia c’è la accountability: chi ci rappresenta deve anche render conto delle scelte fatte. Se a decidere per noi è un estratto a sorte, non si compromette questo principio fondante?

Il dovere di rendere conto serve a controllare il potere, è un criterio liberale concepito per proteggere gli individui dagli abusi dei decisori politici; ma per me non è il principio prioritario in una democrazia. Io al primo posto metto la equality, intesa come la pari opportunità di accesso al potere, e se dovesse esserci un trade-off tra le due cose, se dovessi scegliere tra accountability ed equality, sceglierei la parità. Prendiamo come esempio le giurie popolari: operano secondo il senso comune, al servizio di verità e giustizia, e hanno l’ultima parola pur non dovendo “renderne conto”. La estrazione a sorte garantisce di rappresentare la società nella sua diversità e per questo ha il potere di deliberare in un modo che è benefico. Non a caso in Grecia veniva usato il sorteggio. Inoltre i mini-pubblici producono argomenti e dibattito prima di arrivare a una decisione: si può trovare il modo di informare sul proprio operato senza che questo si traduca in una elezione.

In che modo le sue teorie stanno influenzando la pratica consultiva che è in corso in Francia? Ne ha parlato con Macron o Borne?

Non so neppure se all’Eliseo abbiano letto i miei libri, ma quel che è certo è che durante la convenzione sul clima i miei commenti sui media francesi non devono essere passati inosservati. Ho seguito quei lavori per le mie ricerche, e ho detto schiettamente cosa mi piaceva e cosa no. C’era una cerchia che mi conosceva perché sono di origine francese, poi gli organizzatori di quella convenzione mi hanno conosciuta, e insomma alla fine circa sei mesi fa sono stata contattata. Mi hanno chiesto su quale tema avrei voluto vedere una nuova convenzione. Ho risposto: sul futuro dei giovani in Francia. Mi hanno detto: stiamo piuttosto considerando qualcosa sul fine vita. E mi sono detta, del resto chi vota in questo paese? I pensionati; dunque Macron guarda al suo elettorato. Affrontare questa questione etica potrebbe rivelarsi vincente per lui, politicamente. Io non ero entusiasta. Ma nondimeno, a ottobre, mi è arrivata una mail dagli uffici della premier, in cui si chiedeva un mio coinvolgimento.

Come è stata imbastita la governance di questa convenzione?

Da ottobre ho partecipato a tutte le riunioni in cui abbiamo discusso punti come: quali sono i criteri coi quali estraiamo i campioni per creare il gruppo di 170 cittadini? Cosa discuteranno prima? Quando facciamo intervenire gli esperti? Ci focalizziamo sul raggiungimento del consenso o facciamo emergere i disaccordi valoriali? Il mio punto di vista è che bisogna poter passare dal dissenso, farlo emergere arrivando a un punto di crisi, per metabolizzarlo e arrivare a un consenso non artificiale.

Macron confida nel potere pacificatore del mini-pubblico. Per alcuni politici, è come avere un focus group. E su temi assai polarizzanti, consente di trovare un minimo comun denominatore, una via di buon senso. Ma davvero possono essere gli estratti a sorte a costruire una visione politica, come oggi fanno le forze che competono alle elezioni?

Macron in effetti vede la convenzione come un modo per pacificare e per guadagnare consenso, ma la verità è che qui può esprimersi anche chi prima aveva voce solo in strada; qui per esempio puoi trovare i gilet gialli, nel sistema no. Qui tutti possono trovarsi ad aver voce. Inoltre la competizione elettorale si alimenta sul confronto tra visioni partigiane, mentre qui si può puntare insieme dritti al bene comune.

Von der Leyen ha annunciato assemblee di sorteggiati per ogni tema al quale la Commissione Ue lavora. Peccato che Bruxelles intanto ignori gli esiti della Conferenza sul futuro che c’è già stata. Macron è stato criticato per aver tradito le promesse sul clima. Che senso ha un’assemblea di sorteggiati se non c’è la volontà politica di farne valere gli esiti?

Per me il caso della conferenza Ue è in assoluto lo scenario peggiore. Si tratta di participation washing: un potere burocratico che non ha alcuna reale intenzione di delegare ma che usa l’assemblea dei sorteggiati in modo paternalistico per rifarsi l’immagine. Macron si colloca a metà: ha fatto meno di quanto promesso, ma non si può affatto dire che la convenzione sul clima sia stata vana. Lo scenario migliore è quello visto in Irlanda, dove l’assemblea ha lanciato il percorso che poi ha portato al sì all’aborto al referendum, ed è positivo anche il caso belga. Qui si è investito molto nelle assemblee cittadine, che dettano l’agenda e addirittura cooperano coi parlamentari nel processo legislativo.

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