Quello tra Mario Draghi e la classe dirigente tedesca è stato un rapporto complesso, conflittuale o, almeno, è descritto così. Negli anni della crisi, il suo «whatever it takes» sembrò incarnare l’alternativa all’ortodossia economica tedesca. Forse anche per una certa distanza culturale e persino geopolitica, tra il mondo di Draghi e quello dell’establishment tedesco. Ancora oggi, ci sono accenti diversi nella valutazione della sua presidenza.

L’eredità del 2008

«Mario Draghi ha fatto allora la cosa giusta, le ripercussioni le vediamo ancora oggi. Credo che Angela Merkel col tempo sia entrata a far parte del campo di Draghi e lo dimostra, non da ultimo, la rottura del fronte dell’austerità con le decisioni assunte sul Recovery fund». Così Albrecht von Lucke, scienziato della politica e nella redazione dei Blätter, tra le più influenti riviste progressiste tedesche. Insomma, Merkel, per ironia della storia, si sarebbe col tempo “draghizzata”.

La sua posizione certamente non è condivisa da tutti. Anzi. «Sono stati anni difficili e con decisioni controverse. Mario Draghi è stato un presidente di grande autorevolezza. Ma la sua decisione ha innescato un dibattito sulle competenze della Banca centrale europea e i problemi di quei paesi affetti da elevato debito pubblico e bassa crescita non sono stati risolti» dice Clemens Fuest, direttore dell’istituto Ifo di Monaco.

È stato critico con i piani Draghi perché sono stati certamente in grado di calmare i mercati, ma al tempo stesso nei suoi occhi hanno deresponsabilizzato i governi nazionali. «Lo stesso Draghi» continua Fuest, «ha più volte ribadito che il tempo messo a disposizione dall’azione della Bce doveva servire a realizzare riforme per la crescita e il risanamento delle finanze».

Il successo di quella scelta ha dimostrato anche a molti in Germania la sua validità. Per Herfried Münkler, professore emerito all’Università Humboldt di Berlino, il merito di Draghi è di aver compreso la disomogeneità dell’Europa.

Cosa che allora la classe dirigente tedesca sembrò dimenticare: «C’era l’idea, sbagliata, che la Banca centrale europea potesse funzionare come la Bundesbank con i suoi assunti di politica economica e monetaria. L’errore è stato non capire quanto l’eurozona fosse molto diversificata al suo interno, politicamente ed economicamente».

Da qui si ricava quasi una regola generale per il futuro del continente: «Le istituzioni europee, per sopravvivere, devono essere sempre piegate fino al loro limite. Con la Bce è successo.

Questo serve anche per il futuro: una modifica del mandato della Bce non è ad oggi realizzabile. Si tratta di definire un compromesso politico all’interno di questo continente così disomogeneo: la Bce, dando ragione ad alcuni, forza il suo mandato che, tuttavia, resta istituzionalmente integro e quindi ogni forzatura diventa temporanea, dando così ragione anche agli altri».

Opposizione culturale

L’opposizione a Draghi allora aveva ragioni economiche ma anche culturali: «I tedeschi sono fissati per le soluzioni giuridiche: non accettano che il mandato della Bce sia messo in discussione.

Fino a pensare la politica completamente con categorie giuridiche, cosa che deriva anche dalla storia di questo paese, a lungo uno stato di diritto senza essere una democrazia», dice Münkler. Entra nel dettaglio Fuest, che non nasconde ancora oggi i limiti di quella impostazione: «Una delle critiche al piano Draghi consiste nel fatto che la Bce abbia superato le competenze del suo mandato».

Ma non è questione solo di forma: «Si tratta di un’istituzione governata da una commissione di tecnocrati: questo è accettabile nella misura in cui essa si attiene strettamente al suo mandato. Affermare che quei piani fossero di sola politica monetaria e servissero a garantire il processo di trasmissione della politica monetaria ha a mio avviso danneggiato la credibilità della Banca centrale».

Le alternative

La critica di Fuest è ancor più chiara e sembra quasi già immaginare una sorta di programma per il futuro Draghi presidente del Consiglio: «Si dice sempre che non ci fossero alternative, ma l’alternativa era un “whatever it takes” dei governi nazionali dell’eurozona, legato all’aumento dei finanziamenti destinati al fondo di salvataggio Mes. A quel punto sarebbe stato necessario il consenso dei parlamenti nazionali. Un’altra alternativa sarebbe stato modificare il mandato della Bce e farne davvero il prestatore di ultima istanza».

Di diverso avviso è Münkler: «Il “whatever it takes” costituisce la ripetizione sul piano europeo di quanto avevano detto anni prima la cancelleria Merkel e il suo ministro delle Finanze all’inizio della crisi sulla sicurezza dei risparmi tedeschi. Certamente la frase di Draghi non è piaciuta a molti risparmiatori. Ma ha dovuto tenere insieme l’eurozona, che all’epoca era attraversata da profonde divisioni che erano state sottovalutate all’epoca della fondazione dell’Unione. Non credo ci fossero alternative alla saggia politica di Draghi».

Non è un segreto che il “whatever it takes” fosse concordato, perlomeno con la cancelliera che allora decise di sostenere lo sforzo di Draghi per tenere insieme l’euro, la cui deflagrazione avrebbe comportato anche quella dell’unione politica: «Se crolla l’euro, muore l’Europa», su questo l’ex presidente e la cancelliera erano uniti.

Le ragioni dell’accordo

Anche se Fuest vede nella scelta di assecondare le decisioni del presidente della Bce il tentativo «di alleggerire temporaneamente la crisi e non essere costretti a chiedere nuovamente al Bundestag di garantire miliardi per crediti agli altri stati europei». «Una collaborazione contro gli economisti neoliberisti» dice von Lucke, «anche a costo di una difficilissima crisi all’interno del Governo e della Cdu».

Dall’altro lato c’era, infatti, Wolfgang Schäuble, allora ministro delle Finanze, che non ha mai nascosto la sua distanza dalle scelte di Draghi. Così Münkler: «Schäuble credeva di utilizzare la crisi come leva per realizzare riforme strutturali. È un classico progetto politico, ma fui presto chiaro che non avrebbe funzionato e avrebbe scatenato una massiccia reazione popolare provocando la disintegrazione dell’Unione».

Per quanto il professore della Humboldt precisa: «La scelta di allora di Schäuble di raggiungere il pareggio di bilancio fu giusta, perché ci ha permesso oggi di affrontare la pandemia e di varare anche il Recovery fund». Infine, sull’oggi. «In Germania c’è timore per un governo dominato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Per questa ragione anche un governo di tecnici, che per la cultura politica tedesca è qualcosa di inconcepibile, può essere una soluzione e Berlino farà di tutto per sostenerla» dice Münkler.

Il giudizio è condiviso da von Lucke: «Draghi è considerato in Germania una figura politica di primo piano, indipendentemente dalle discussioni sulla sua politica come presidente della Banca centrale. Certamente rassicura sull’uso degli stanziamenti dall’Europa: la sua integrità da fiducia. Si pone il problema, però, se Draghi riuscirà a gestire il rapporto con i partiti politici e con gli abissi della politica italiana».

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