Ormai lo chiamano il “G6 + 1”: il presidente Usa è una variabile a sé. Ma invece di fare da contrappeso alle forzature trumpiane, gli europei lo assecondano, da Israele ai dazi
Lo hanno ribattezzato «il G6 + 1», dato che gli Usa trumpiani sono una variabile a sé. Il G7 in corso è l’occasione per Giorgia Meloni di avere incontri ravvicinati con quei capi di stato e di governo europei – Emmanuel Macron, Friedrich Merz, Keir Starmer – che sul Medio Oriente, come già sull’Ucraina, si muovono in «coordinamento stretto» (l’espressione è del cancelliere) e che in differita la coinvolgono.
Prima che si entrasse nel vivo delle trattative, la premier si è coordinata con Germania, Francia, Regno Unito, Canada; alle nostre tre di mattina di lunedì, ha diffuso note sui faccia a faccia con Merz e Starmer. Quanto alle foto col cancelliere tedesco, della famiglia amica del Ppe: cordiali e a profusione.
Ma al di là del valzer di abbracci e di colloqui, sulle Montagne Rocciose di Kananaskis si infrange l’illusione della premier di poter vedere accrescere la sua influenza sulla base del presunto ruolo di pontiera tra l’Ue e Trump.
L’illusione si infrange anzitutto perché il presidente Usa – come dimostrano anche le mosse recenti – non è in cerca di ponti, con l’Europa, ma di forzature, proprio come già fa in patria con le leggi, l’esercito, i giudici e via dicendo.
Mentre sbeffeggia gli alleati con le sue uscite su Putin, Donald Trump in tandem con Benjamin Netanyahu ottiene docilità dall’Ue sull’iniziativa israeliana in Iran; e mentre pretende l’aumento delle spese militari al 5 per cento, da sancire la prossima settimana all’Aia, il tycoon insiste: l’Ue deve digerire dazi al dieci per cento come base di partenza, su ciò non si tratta.
Strattoni in Medio Oriente
Per misurare le torsioni in corso sul versante Israele-Iran basterebbe mettere a confronto le dichiarazioni dell’entourage della premier. Poche ore prima che il governo Netanyahu lanciasse l’attacco contro l’Iran, il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani non aveva soltanto detto che «non mi pare che un attacco militare contro l’Iran sia così imminente», ma pure che «in Israele sanno bene che siamo contrari». Questo lunedì invece, mentre la premier era in Canada, di riflesso il fedelissimo Tommaso Foti andava dicendo che «se l’Iran avesse continuato gli impegni per non realizzare l’atomica, non parleremmo di questo» (come se non fosse stato «l’amico» Trump a infrangere nel 2018 l’accordo sul nucleare iraniano nell’ottenere il quale l’Ue aveva giocato un ruolo attivo).
L’ambasciatore di Israele in Ue, Haim Regev, ha rivendicato pubblicamente – tramite Euractiv – che «il più forte supporto a Israele sull’Iran arriva da Germania, Francia, Regno Unito e Italia», dunque anche da Roma.
Sotto la coltre di dichiarazioni fumogene in cui ci si appella alla «de-escalation», il nucleo europeo che sta imponendo la direzione – spinto da Merz, che von der Leyen segue – slitta in favore di Netanyahu.
Già venerdì il cancelliere tedesco e l’Eliseo si sono raccordati con premier israeliano e presidente Usa, per poi individuare nel nucleare iraniano l’origine del problema e nella sicurezza di Israele la priorità da difendere («anche direttamente, se ne avremo le possibilità», ha detto Macron). Nel weekend Merz ha avvertito che la Germania si sta preparando ad attacchi iraniani in siti israeliani ed ebrei.
Nelle ore in cui i leader confluivano in Canada, Ursula von der Leyen ha dichiarato non soltanto di aver sentito Netanyahu, ma che «Israele - lo sottolineo – ha il diritto di difendersi», ed è «l’Iran la maggior fonte di instabilità regionale». Questo mentre la platea di governi europei aveva faticosamente ottenuto la revisione dell’accordo Ue-Israele: solo questo martedì, l’alta rappresentante Ue si confronterà sul dossier iraniano con tutti e 27 i ministri (e non sull’accordo).
Le forzature di Trump
«A colpire le città in Ucraina e Israele è lo stesso tipo di droni e missili iraniani: ecco perché queste minacce devono essere affrontate insieme», ha dichiarato von der Leyen nelle prime ore di lunedì. L’uscita non fa altro che trascinare gli europei in guerra assieme a Netanyahu, mentre non vale il contrario: se mai l’intento della presidente fosse stato quello di responsabilizzare Trump verso la Russia, quel piano finisce sbeffeggiato, tra uscite su un Putin mediatore e rimpianti trumpiani perché Mosca è fuori dal G7.
Anche la docilità di von der Leyen nella trattativa sui dazi – la decisione di bloccare qualsiasi contromisura Ue mentre gli europei già pagano tassa con Trump – dà al tycoon solo un segnale di via libera: non solo insiste che il 10 per cento di dazi contro l’Ue sia condizione di base non negoziabile, ma si rumoreggia pure che l’Ue sia disposta a digerirla.
L’ex presidente di Commissione Jean-Claude Juncker, che col Trump del primo mandato sui dazi aveva spuntato qualcosa, ora lamenta dalle colonne del Financial Times che l’Ue «va troppo lenta e von der Leyen avrebbe sùbito dovuto impegnarsi in prima persona». Un «ve l’avevo detto» in salsa europea.
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