Dopo aver contribuito a rendere incendiaria la situazione internazionale, Donald Trump ha lasciato l’Europa col cerino in mano.

Certo, se l’è anche svignata dal G7 in Canada prima che iniziasse la discussione sull’Ucraina, lasciando il presidente ucraino Volodymyr Zelensky senza il tanto atteso incontro; ma questa è solo la rappresentazione plastica di un abbandono su più ampia scala.

E – a proposito di raffigurazioni – la foto diffusa da Giorgia Meloni a testimonianza di un momento a due col presidente Usa, in cui la premier sta letteralmente in panchina, riflette la più generale tendenza dell’establishment europeo ad aggrapparsi a una relazione transatlantica che ormai è a tutti gli effetti squilibrata e quindi tossica.

La subalternità strategica rispetto a Washington – particolarmente paradossale nel momento in cui neppure Trump ha pieno controllo della propria strategia e dei suoi effetti – si legge anche tra le righe della dichiarazione finale del G7, con la quale anche Francia, Germania e Italia si allineano di fatto alla posizione del duo Trump-Netanyahu nell’addossare all’Iran di essere «la principale fonte di instabilità regionale e di terrore», proprio come aveva già fatto pochi giorni prima Ursula von der Leyen dopo la telefonata col premier israeliano.

Peccato che questa subalternità – al di là dei giudizi – risulti pure controproducente: lo sa bene von der Leyen stessa, che avrà pur ottenuto una foto e un momento a due col presidente Usa al G7, ma non ha risparmiato all’Ue la beffa. Poco dopo quell’incontro, Trump già sparava l’ennesimo ricatto sui dazi, per non parlare della gaffe in cui – al fianco del premier britannico Keir Starmer – ha sostenuto di aver firmato invece l’accordo con l’Ue (lapsus freudiano se si pensa che pure a noi la Casa Bianca vuole imporre il 10 per cento come tassa fissa).

Pubblicamente, almeno in questi frangenti, il più esposto di tutti allo schiaffo trumpiano è il presidente francese, contro il quale l’inquilino della Casa Bianca è andato all’affondo via social.

«Lavoro sporco»

Iran, Ucraina, dazi: su più fronti il presidente Usa consegna agli europei gli ennesimi colpi bassi. Ma tra i cahiers de doléances si registra anche l’orgoglio ferito del presidente francese.

«Dato quel che sta accadendo in Medio Oriente, Trump lascerà il Canada dopo la cena coi capi di stato»: versione ufficiale data lunedì dalla portavoce trumpiana Karoline Leavitt per spiegare l’anticipata dipartita. Spiegazione che Emmanuel Macron ha infiocchettato a modo suo, in nome di un alto impegno trumpiano a cercare il cessate il fuoco. Al che il presidente lo ha silurato su Truth: «Macron cerca pubblicità e dice erroneamente che lavorerei a un cessate il fuoco tra Israele e Iran. Sbagliato! Non ha idea del perché io torni a Washington, ma certo non per questo. Che lo faccia apposta o no, Macron ha sempre torto». Questo dopo che Macron, come Merz, gli è pure andato dietro sulla linea dura pro Israele.

Mentre la Francia, almeno a parole, continua a parlare di soluzioni diplomatiche, il cancelliere tedesco già fa intendere che gli Usa «in un prossimo futuro» potrebbero anzi entrare di più nel conflitto.

E non lo dice prendendone le distanze, ma semmai il contrario: questo martedì, dal Canada, non ha solo giustificato le mosse di Netanyahu, ma le ha praticamente assunte come sue, dichiarando alla tv ZDF che quello con l’Iran «è il lavoro sporco che Israele sta facendo per tutti noi» e che «anche noi siamo colpiti dal regime iraniano».

Relazione tossica

Mentre Merz, Macron, Starmer – i «volonterosi» – si intruppano nelle guerre scatenate da Netanyahu e Trump, gli Usa dal canto loro disinvestono politicamente sul quadrante ucraino.

«Interrogato sull’Air Force One sull’attacco russo contro Kiev, che ha provocato almeno dieci morti e 120 feriti, il presidente Usa ha reagito come se ignorasse la cosa», scrivono sconcertati i cronisti ucraini. Che – nonostante Zelensky possa aver apprezzato i colloqui con Meloni e soci – non mancano di notare le aspettative deluse: Trump è andato via dal Canada schivando il presidente ucraino e l’incontro con lui.

Non si tratta soltanto di riti: l’Ue puntava sul G7 come ultimo tentativo di ingaggiare anche gli Usa in ulteriori contromisure (quindi pressioni) contro Mosca. L’attuale tetto al prezzo che i sette hanno messo al petrolio russo è di 60 dollari al barile, ma Bruxelles voleva sforbiciarlo a 45.

Peccato che il tycoon finora abbia solo blaterato sui social di misure economiche contro la Russia, come leva per farle pressione, ma mai al punto di agire. E anzi: come ha notato l’alta rappresentante Ue Kaja Kallas questo martedì dopo la videoconferenza a 27 su Iran e Israele, il conflitto innescato in Medio Oriente (da Netanyahu contando su Trump) sta provocando oscillazioni dei prezzi che potrebbero arricchire ancor più Putin «e la sua macchina di guerra».

Da sùbito – da quando a Mosca ha spedito l’inviato in Medio Oriente – Donald Trump ha gestito il riavvio dei canali con Vladimir Putin con lo sguardo sdoppiato: certo, c’era il dossier ucraino, i cui costi sono ormai sempre più esternalizzati sulle spalle degli europei, ma c’erano pure gli interessi nello scacchiere medio orientale.

Al G7 – ormai G6 più 1 – gli europei sono riusciti nell’arte del paradosso: ficcarsi loro nel conflitto in Medio Oriente, lasciando che sul versante a loro più vicino Trump si disimpegnasse.

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