Sull’energia l’Europa torna a dividersi tra falchi e colombe, tra nord e sud, dove il nord è da intendersi non solo come il settentrione geografico ma anzitutto come il centro politico ed economico. In questa crisi dei prezzi, Berlino con la protratta complicità della Commissione europea ha proiettato l’Ue indietro di oltre dieci anni, quando la crisi era quella finanziaria e la parola “austerità” non era associata all’energia.

Il lettone Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione Ue e considerato da anni falco per eccellenza, questo martedì ha sdoganato come più che plausibile lo scenario di una «contrazione economica in inverno». Dopo aver frenato da mesi sul tetto ai prezzi del gas e su altri provvedimenti comuni, la Germania fa da sé e si attrezza coi suoi 200 miliardi di scudo.

La Commissione, che a traino di Berlino aveva schivato ogni intervento radicale di riconfigurazione del mercato dell’energia, si ritrova ora con la “locomotiva tedesca” che, sussidiando le proprie imprese, rischia di distorcere proprio il mercato comune. Paesi come Spagna e Italia, che da molti mesi spingevano per interventi più incisivi di quelli effettivamente intrapresi dall’Ue, hanno provato a rianimare le «strategie comuni». Un francese e un italiano, i due commissari europei Thierry Breton e Paolo Gentiloni, hanno tentato di imbastire una exit strategy per rabbonire tutti: tirano fuori soluzioni come Sure, l’ammortizzatore in forma di prestito, già collaudato in pandemia.

Ma il più falco di tutti, il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, si è opposto anche a questo.

Germania e Olanda

I due governi che più hanno frenato, sul tetto al prezzo del gas, e cioè quello tedesco e olandese, si sono dati appuntamento per il 4 ottobre e hanno fatto fronte comune.

Giovedì scorso, alla vigilia del Consiglio Ue sull’energia, il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato il piano di aiuti nazionale da duecento miliardi. Questo martedì, mentre ancora infuriavano le polemiche sulle politiche fai da te di Berlino, il premier Mark Rutte ha dettagliato i suoi piani per un tetto ai prezzi dell’energia che si concretizza in sussidi pubblici a famiglie e imprese olandesi.

Entrambi gli esecutivi scelgono così non di porre limiti ai prezzi di vendita del gas, ma di compensarne i costi utilizzando fondi pubblici. Rutte e Scholz questo martedì si sono anche incontrati, e si sono dati man forte a vicenda. «Io penso che la Germania abbia tutto il diritto di prendere misure nazionali, non vuol dire che non lavoriamo anche insieme a livello europeo», ha detto il premier olandese. «Tutti vogliamo che i prezzi scendano», ha proseguito il cancelliere tedesco. E poi Rutte ha lanciato il colpo finale al tetto ai prezzi: «Se imponi un limite di prezzo e poi il gas non te lo vendono più, come fai? Bisogna farlo con ragionevolezza».

Il nodo Sure e le mediazioni

Berlino insomma tira dritto per la sua strada: fa blocco con i frugali dell’Olanda, paese dove ha sede il mercato virtuale per lo scambio del gas Ttf, e ribadisce che è normale prevedere interventi nazionali. La Lega in Ue ha presentato un’interrogazione per verificare che il piano tedesco non violi la cornice sugli aiuti di stato, mentre il premier ungherese parla di «cannibalismo Ue»: i sovranisti cavalcano i malumori.

Lo scudo tedesco resta il più ingombrante attuato finora in Ue: le varie operazioni di Berlino valgono fino all’otto per cento del pil nazionale. L’istituto Bruegel, che ha comparato le misure dei vari paesi, avverte che «il rischio principale del pacchetto tedesco consiste nel frammentare il mercato unico europeo: va usato come un’occasione per pensare ad una risposta fiscale comune europea alla crisi energetica».

Proprio questo hanno tentato di fare i due commissari Breton e Gentiloni, la cui iniziativa viene però liquidata da Ursula von der Leyen – e dal vice Dombrovskis – come una mossa a titolo personale. Eppure non è una proposta rivoluzionaria, quella che intravede in un nuovo fondo Sure una ipotesi di mediazione, ma anzi un tema da tempo sui tavoli europei. Durante la pandemia, Sure era stato inteso come una sorta di cassa integrazione europea, e dopo il Covid i tentativi di rinfrescare questa misura nel lungo termine sono stati molteplici. Un nuovo Sure è stato invocato dalla piazza sindacale il 1 maggio, e uno Sure inteso come ammortizzatore sociale europeo è stato spinto dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, in alleanza con la Spagna, sui tavoli del Consiglio Ue a tema occupazione.

Già quest’estate Gentiloni si diceva d’accordo su uno Sure 2.0: «Figuriamoci se non sono d’accordo – spiegava a Domani – anzi rivendico di aver proposto io il primo Sure». Nel 2021, di 100 miliardi, un quarto è andato all’Italia, e «credo che questo strumento abbia funzionato molto bene: si trattava di prestiti con poche condizionalità che hanno fatto risparmiare oltre tre miliardi alle nostre finanze pubbliche».

In vista dell’incontro di Praga, a inizio settimana i commissari Thierry Breton e Paolo Gentiloni hanno invocato «strumenti comuni» – cioè Sure – e allertato sul rischio di «distorcere la concorrenza nel mercato comune»; un riferimento, pur indiretto, a Berlino. Ma i falchi dell’energia spintonano anche contro questa mediazione: i due ministri delle Finanze, tedesco e olandese, questo martedì hanno espresso parole contrarie.

Von der Leyen, che finora sul tema energia ha aderito agli orientamenti tedeschi, è pur sempre costretta a cercare vie di fuga: ha incontrato Emmanuel Macron, come ha fatto lo stesso Scholz in settimana. Intanto Roberto Cingolani si coordina con Giorgia Meloni, che invoca gli interessi nazionali ma indica in Europa i responsabili: «Il tema europeo è fondamentale, sono in contatto quotidiano col governo uscente per capire qual è il punto di caduta».

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