«Io ai tempi del comunismo ho scritto sulla stampa clandestina. Questa situazione mi preoccupa quanto, se non più, di allora», dice Magdalena Środa, una delle più note intellettuali polacche. Filosofa, femminista, una cattedra all’università di Varsavia, Środa tira fuori i suoi ricordi del regime per spiegare cosa sta succedendo nel paese. «Perché è a questo che stiamo assistendo: a un cambio di regime». Mentre sui siti di tutto il mondo rimbalza la notizia che la leader delle proteste per il diritto all’aborto Marta Lempart rischia fino a otto anni di carcere, nel frattempo i media indipendenti del paese sono sotto attacco. La società civile è in rivolta e ora il punto diventa anche chi resterà a raccontarlo.

Cambio di regime

«Come posso spiegare ai lettori italiani quel che sta succedendo? Vede, in realtà è piuttosto semplice». Środa al telefono comunica in francese, e la sua sintesi della situazione sta in una riga: «Stiamo passando da un regime democratico a uno totalitario». Il governo ha messo le mani sul sistema giudiziario, che da tempo ormai non è più indipendente dalla politica; ora la stretta è sui media liberi. «È un altro passo verso il totalitarismo. I media pubblici sono di partito: fanno propaganda, divulgano menzogne». Quanto ai media indipendenti, il governo vuole inaugurare una tassa che li colpisce. Mercoledì le testate libere hanno scelto di oscurarsi in segno di protesta, proprio come, più di dieci anni fa, fecero i giornali ungheresi. La coincidenza non è un caso. Confrontando le testimonianze dei cronisti polacchi e di quelli magiari, entrambi confermano che la traiettoria scelta dal governo di Varsavia è molto simile a quella portata a termine da Viktor Orbán a Budapest: azzerare le voci non allineate, concentrare il potere in mano al proprio partito e cerchio magico. C’è però una fondamentale differenza: la società polacca sta facendo rete e oppone resistenza.

La tassa

I riflettori sulla libertà di stampa in Polonia si riaccendono per una mossa del governo: vuole introdurre una tassa sulle inserzioni pubblicitarie. «Aumenterà il divario tra media pubblici e privati, e finirà per indebolire, se non fare fuori, alcune testate» hanno scritto in una lettera gli editori interessati, fra i quali gruppi stranieri come Ringier Alex Springer. Le voci libere del paese hanno condiviso la protesta: mercoledì hanno oscurato i siti. «Ecco come sarà un mondo senza media indipendenti», è il messaggio del portale Onet su sfondo nero: «Prendiamo parte alla protesta assieme a testate con proprietari sia polacchi che stranieri perché riteniamo di non avere scelta». Dalla tv di stato, il presidente Andrzej Duda ha commentato che «protestano non per la libertà ma per soldi». Nonostante i tentativi di minimizzare, il principale azionista di governo, il Pis, deve prendere atto dell’opposizione alla tassa. Non arriva solo da media e opposizione, ma da una parte della stessa coalizione di governo: il ministro Jaroslaw Gowin di Porozumienie (destra cattolica moderata) non apprezza. Beata Klimkiewicz monitora lo stato dei media polacchi per il Centre for media pluralism and media freedom europeo. Dice che la più grande vulnerabilità è «l’indipendenza dalla politica». Quanto alla tassa, «è stata concepita non per colpire piattaforme come Google ma un’industria editoriale già assai indebolita. Con ricadute non solo economiche».

Orbanizzare

La tassa è un frammento di un piano più ampio. Nel 2020, il colosso energetico statale Orlen ha acquisito il gruppo Polska Press, di cui fanno parte quotidiani locali e settimanali. La narrativa del Pis dice che la stampa locale è stata «ripolonizzata» (prima era dei tedeschi di Verlasgruppe Passau). Ma la retorica identitaria e nazionalista nasconde una strategia di “orbanizzazione”. Daniel Obajtek, presidente di Orlen, è accreditato come un possibile successore dell’attuale (debole) premier Mateusz Morawiecki. «Ogni passo della sua carriera come manager è legato a doppio filo al Pis», dice Adam Leszczynski, giornalista di Oko. I tentativi di addomesticare i media, dice, non riguardano solo quelli in mano a compagnie straniere. «Mentre la tv di stato riceve mezzo miliardo per la propaganda, le pressioni sulle testate libere aumentano» In Ungheria il processo è in corso da almeno dieci anni. Katalin Halmai ricorda quando il suo giornale, Népszava, si “oscurò” come fanno ora quelli polacchi: «Era il 2010, protestavamo contro la legge sui media». Peter Zentai lavora per Klub Radio, ultima radio indipendente, silenziata dal governo.

Prima le hanno tolto le licenze per le aree rurali, ora anche su Budapest: «Da lunedì siamo solo online». Zentai dice che «la Polonia è molto simile all’Ungheria per quel che il governo vuol fare».

Ma c’è una differenza: in Polonia un’opposizione vivace è ancora possibile. Così dice lui da Budapest, così la pensano gli intervistati di Varsavia. Środa è convinta che se il governo dovesse esagerare con le forzature – e per esempio arrestare davvero Lempart – scoppierebbero proteste tali da ritorcersi contro il Pis. Anzi, le lotte per le libertà, delle donne, dei media, potrebbero coalizzarsi. «In Polonia la società civile, se provano a toglierle la libertà, non sta ferma». Se le cose dovessero peggiorare, «una volta c’era la stampa clandestina. Ci sarà anche stavolta».

© Riproduzione riservata