I rapporti tra Varsavia e l’Europa attraversano un momento di crisi, ma chi parla di Polexit e ipotizza l’uscita della Polonia dall’Unione europea dimentica il legame stretto tra questo paese e il resto del continente. È più plausibile un cambio di governo polacco che un divorzio dall’Ue.

La crisi in corso

Oggi il conflitto è al culmine: la Polonia disconosce l’ordinamento europeo, e viceversa. A produrre lo scontro non è la società polacca, che i sondaggi confermano da tempo essere una delle più europeiste dell’Ue, ma l’attuale governo a guida Pis, partito ultraconservatore e ultracattolico che mina lo stato di diritto e l’indipendenza dei giudici. Basti pensare alla Corte costituzionale polacca, la stessa che ora dichiara di non voler rispettare le sentenze della Corte di giustizia europea ritenendole «non vincolanti». Quella Corte di Varsavia è tutt’altro che libera dall’esecutivo. Qualche esempio: nel 2015 il presidente polacco Andrzej Duda ha rimpiazzato tre giudici scelti dal precedente governo con nomi graditi al Pis. A novembre 2019 i parlamentari del Pis hanno eletto come membri della Corte due loro ex colleghi. «Corte-burattino», l’ha definita Andreas Vosskuhle, ex capo della Corte costituzionale federale in Germania. A innescare l’ultimo conflitto con l’Europa è la decisione di Varsavia di introdurre una vera e propria disciplinary chamber, una sezione della Corte suprema volta a imporre misure disciplinari arbitrarie nei confronti di giudici polacchi non graditi alla maggioranza di governo. La Corte di giustizia dell’Ue, accogliendo il ricorso di Bruxelles, ha sentenziato ieri che queste misure minano l’indipendenza dei giudici e violano il quadro normativo europeo.

L’ombra della Polexit

Per l’Europa la giustizia “alla polacca” è indigeribile, e a Varsavia non intendono mandar giù le indicazioni europee. «Il tribunale costituzionale polacco, dominato dall’esecutivo, annuncia che alcuni articoli dei Trattati europei non sono compatibili con la Costituzione della Polonia» dice il giurista di origine polacca Wojciech Sadurski, che insegna a Sidney e che per Oxford University ha pubblicato Poland’s Constitutional Breakdown. «Questo è un passo decisivo verso una Polexit legale» dice. L’uscita del paese dall’ordinamento europeo è «un dramma», dice: «Che tristezza». Pure la Commissione Ue tanto serena non è: «Il pronunciamento della Corte polacca conferma i nostri timori sullo stato di diritto in Polonia». Dal 2019 era chiaro anche al governo polacco che la riforma per ammansire i giudici avrebbe creato problemi con l’Europa, e così sta andando.

Ma i dissidi non finiscono qui: proprio ieri Bruxelles ha dato il via all’ennesima procedura di infrazione verso il governo di Varsavia, oltre che nei confronti dell’Ungheria, per i provvedimenti omofobi approvati nei due paesi. Nel caso polacco, l’occasione di contrasto sono le “Lgbt free zones”: oltre cento amministrazioni locali, un numero di città che copre un terzo del paese, si sono dichiarate «scevre dall’ideologia Lgbt». Il che per l’Ue è discriminatorio. L’Europarlamento ha da tempo condannato sia questi provvedimenti anti Lgbt che il divieto di aborto. Altra ragione di attrito tra Unione e Polonia riguarda i media, sia in fatto di concentrazione di mercato che di pluralismo a rischio. L’ultimo caso – contro il quale lunedì si è scagliata la commissaria Ue con delega allo stato di diritto, Vera Jourova – è una bozza di legge sulle concessioni tv che toglierebbe le licenze a emittenti non europee. In questo modo verrebbe eliminata Tvn, rete Usa critica con il governo.

Viste le ripetute violazioni della rule of law, non c’è da stupirsi se il premier Mateusz Morawiecki si è alleato con Viktor Orbán nel tentativo di bloccare il meccanismo che vincola i fondi europei al rispetto dello stato di diritto. Né sorprende che i due stiano lavorando a un comune progetto politico. Stupisce semmai il sorriso pro forma mantenuto da Ursula von der Leyen dopo l’incontro con Morawiecki martedì. «Un buono scambio», lo ha definito la presidente della Commissione Ue.

Destini legati a doppio filo

L’uscita della Polonia dall’Unione europea rimane però uno scenario poco plausibile per svariate ragioni. La più importante è che i polacchi non vogliono la Polexit, anzi. Trent’anni dopo la caduta del comunismo, nel 2019, il Pew Research Center ha registrato che la Polonia è il paese più europeista d’Europa. Favorevole l’84 per cento della popolazione; in Italia solo il 58, in Francia il 51. Tra le ragioni dell’euro-entusiasmo c’è il fatto che la Polonia ha preso più fondi Ue di tutti gli altri, e infatti uno studio, Perceive Europe – realizzato da un gruppo di università europee tra cui Barcellona, Bologna e Gothenborg – ha attestato che tre polacchi su quattro si sentono aiutati dall’Europa. In Italia, fino a un paio di anni fa, erano solo uno su dieci. La Polonia è l’unico paese europeo che ha continuato a crescere anche negli anni della crisi finanziaria. Pure la sua collocazione geopolitica è affine a quella dell’Ue. Diversamente dall’Ungheria dell’amico Orbán, che stringe legami con Mosca, Varsavia – che ha conosciuto la dominazione sovietica – se ne guarda bene; difende i legami con la Nato e con gli Usa. L’altro ieri Varsavia ha annunciato l’acquisto di 250 carri armati statunitensi «per rimpiazzare quelli dell’èra sovietica e fare da deterrenti contro la Russia», ha detto il governo. Più della Polexit è possibile semmai una Pis-exit, cioè che il partito perda il dominio della politica polacca. Da ottobre litiga con la coalizione, a giugno tre deputati hanno pure lasciato il partito facendone traballare la maggioranza. Nel frattempo l’ex premier Donald Tusk, che era andato a Bruxelles a presiedere il Consiglio europeo e poi il Ppe, è appena tornato alla politica polacca e al suo partito, Piattaforma civica (Po) per sfidare il Pis e il suo leader, Jaroslaw Kaczynski. Ieri Tusk ha detto che «sarà Kaczynski, non la Polonia, a uscire dall’Ue».

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