La democrazia rappresentativa sta vivendo, ormai da tempo, una forte crisi che si estende a tutti i livelli di governo: locale, nazionale e sovranazionale. La prova più allarmante a dimostrazione di questa crisi non è tanto data dalla bassa affluenza alle urne quanto dall’incapacità della politica nell’affrontare alcune delle sfide sociali più pressanti del nostro tempo. Se storicamente i partiti politici sono stati capaci di fare da tramite fra cittadini e potere, oggi vivono un forte declino, non solo in termini elettorali, ma anche di consenso e apprezzamento fra la popolazione. Piuttosto che promuovere il cambiamento, i loro meccanismi di accesso e funzionamento sono un ostacolo al cambiamento stesso. Questa incapacità dei partiti di rinnovarsi ha provocato grandi spinte verso forme di democrazia diretta, antagonista di quella rappresentativa, ma – come dimostrato dall’esperienza pionieristica del Movimento 5 Stelle (ma anche quella di Podemos in Spagna, o ancora del Partito dei Pirati in altri paesi europei) –, che si sono rivelate illusorie nella loro abilità di tradurre le preferenze popolari in azione di governo. Allo stesso tempo, questi movimenti hanno avuto il merito di illustrare il bisogno crescente di nuove forme di partecipazione capaci non soltanto di facilitare l’accesso alla politica a nuovi segmenti della popolazione, ma anche e soprattutto di riconnettere i rappresentanti eletti con il loro pubblico, i cittadini.

Numerose sono le iniziative di recente emerse anche nel nostro paese, quali Ti Candido, The Good Lobby o ancora le molteplici scuole di mobilitazione politica, che pur confermando la democrazia rappresentativa quale metodo privilegiato per governare democraticamente, riconoscono la necessità di creare nuove forme di partecipazione – e dunque ascolto e attivazione del pubblico da parte dei decisori – che sono complementari, e non antagoniste, alla democrazia rappresentativa.

Non solo elezioni

Si tratta di riconoscere, anche in Italia, che la democrazia non si esaurisce nel momento elettorale, ma che al contrario essa si nutre di ulteriori forme di scambio e contatto tra eletti e elettori che avvengono nello spazio esistente tra una elezione e l’altra. Ora, questo spazio, spesso definito come democrazia partecipativa, è ben più ampio di quello della politica (politics) e si estende a quello delle politiche pubbliche (policies). Se il primo permette di scegliere i nostri rappresentanti, è il secondo che determina la qualità dell’aria che respiriamo, la sicurezza del cibo di cui ci nutriamo, la qualità dei servizi che riceviamo e, dunque, delle opportunità di vita che ci vengono offerte. L’obiettivo nella preparazione di una politica pubblica è l’identificazione dell’interesse pubblico, quello che la società dovrebbe perseguire per migliorare il benessere generale. Ebbene, per individuare quale esso sia, è necessario e imperativo ricorrere all’aiuto di tutti coloro che sono toccati da una certa politica pubblica. Tuttavia, storicamente il processo di formazione delle politiche pubbliche è stato nascosto ai più, rimanendo una prerogativa di pochi soggetti – ovvero i corpi intermedi, quali i sindacati, partiti, ordini professionali, camere di commercio e associazioni di categoria – la cui attività viene comunemente liquidata, e dunque stigmatizzata, come lobbismo. Eppure, nonostante venga usato con un’accezione spesso negativa, ‘fare lobbying’ significa innanzitutto partecipare, e dunque contribuire al processo decisionale occupando quello spazio, prezioso, di ascolto e scambio tra eletti e elettori. In quanto tale, è un’attività non soltanto legittima, ma necessaria in ogni democrazia e questo indipendentemente dalla natura degli interessi rappresentati, siano essi privati o diffusi, quali la salute o l’ambiente. Visto da questa prospettiva, fare lobbying permette a chi è fuori dalla ‘stanza dei bottoni’ di informare il decisore di come le sue scelte, nel processo di formazione delle politiche pubbliche, incidano sugli interessi e dunque sulle opportunità dei vari soggetti presenti nella società.

Un’altra idea di lobby

Tuttavia, permane una forte resistenza culturale al fenomeno lobbistico. Seppur riconducibile a molteplici spiegazioni, di natura mediatica, politica, sociale, essa rappresenta un chiaro ostacolo a un processo legittimo e necessario di cui ci priviamo come nazione. La narrazione giornalistica dominante è ancora oggi relegata all’illazione, al retroscena o, nel peggiore dei casi, al complotto e allo scandalo. Le ‘lobby’, non il lobbying, i faccendieri, non i lobbisti, titolano i media nazionali quando raccontano le interazioni tra interessi e decisori.

Ecco perché la crisi della rappresentanza da un lato, e la progressiva erosione dell’intermediazione dall’altro, richiedono oggi una democratizzazione del lobbying; e ciò non può che passare da una demistificazione del fenomeno, al fine di normalizzarlo nell’immaginario collettivo.È ciò che definisco lobbying civico, in contrapposizione all’esercizio attuale del lobbying da chi rappresenta un numero limitato di interessi perlopiù particolari e ben organizzati. Questa forma di mobilitazione si differenzia dal lobbying aziendale poiché persegue obiettivi di interesse pubblico, che trascendono da quelli meramente privati. Potrei citare come esempio una organizzazione non governativa (sia essa la LIPU o Save the Children) che promuove un cambiamento legislativo a vantaggio della collettività (tutela della fauna o dei minori), o ancora un movimento civico che chiede la chiusura di una fabbrica inquinante.

Il lobbying civico, in quanto forma di partecipazione volta a informare e influenzare il decisore, contribuisce a mobilitare cittadini che troppo spesso si sentono impotenti e sfiduciati coinvolgendoli nei processi decisionali, creando un legame nuovo tra società civile e istituzioni. I cittadini lobbisti aiutano – e non ostacolano – il lavoro dei nostri rappresentanti politici, informandoli con punti di vista non meno rilevanti di quelli delle aziende e altri interessi organizzati.

Sottorappresentati

In un contesto caratterizzato dalla sottorappresentazione degli interessi pubblici (che porta inevitabilmente a una sovra-rappresentanza degli interessi particolari), il diffondersi di lobby civiche avrebbe il merito di offrire al decisore una fotografia più accurata della realtà sulla quale egli incide con le sue scelte e decisioni politiche o, ancora, gli darebbe indicazioni utili prima di intraprendere una nuova politica pubblica o sua riforma. Così facendo, il lobbying civico permetterebbe di eguagliare l’accesso ai processi decisionali, in linea con il principio, perlopiù dimenticato nel nostro Paese, di eguaglianza politica. Tale principio non è soltanto trascurato ma anche completamente sovvertito: il potere politico che ciascuno di noi esercita nella società non è eguale, non avendo lo stesso peso, ma nessuno sembra preoccuparsene. La diseguaglianza politica non è che l’altra faccia della diseguaglianza economica.

Di qui, la necessità di gruppi e movimenti che, non perseguendo obiettivi di natura elettorale – quali Fridays for the Future, le Sardine, l’Associazione Coscioni o ancora il Forum Diseguaglianze Diversità– capaci di partecipare e dunque influenzare i decisori dal basso. Questi, fungendo da collegamento (feedback loop) tra società e eletti, porteranno i partiti ad adattarsi a nuove forme di ascolto e attivazione. Soltanto nuove forme di partecipazione potranno riattivare l’immaginario collettivo e sostenere processi virtuosi di co-creazione insieme ai nostri rappresentanti, generando nuove visioni di società oggi inimmaginabili.

Se l’Italia ha un futuro democratico, questo non potrà che passare dal ribaltamento in positivo di un fenomeno percepito come sospetto quale il lobbying; questo permetterebbe ai più di appropriarsene, con conseguenze concrete sulle nostre pratiche partecipative, interazioni con i decisori e dunque sulla medesima cultura politica che permea la rappresentanza.

(La copertina del libro di Alberto Alemanno "The Good Lobby" che arriva in edizione italiana il 9 giugno con Tlon)

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