Quando dice da Cernobbio che «il governo Meloni deve evitare assolutamente che si parta con una politica di contro-dazi», il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sta facendo in sostanza ciò che l’amministrazione Trump ha chiesto. E cioè: «Sit back, take it in, and let’s see how it goes». Non reagite, incassate e state a vedere come va, altrimenti vi faremo vedere altri dazi amari («Because if you retaliate, there will be escalation»).

Peccato che neppure il primo divulgatore dell’assoggettamento serafico al trumpismo – il segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent – riesca ormai a restare così serafico e trumpista, davanti a quella che il Wall Street Journal definisce «market carnage», «una carneficina dei mercati che non fa che peggiorare». Pare che persino lo stesso Bessent stia «cercando una exit strategy» – punterebbe a una posizione nella Fed – per poi dimettersi.

Crepe nel trumpismo

A spifferarlo è stata l’esperta di finanza Stephanie Ruhle, che conduce “The 11th Hour” su Msnbc e che ha fatto riferimento a fonti interne all’amministrazione. La motivazione è ancor più interessante: «Negli scorsi giorni, Bessent si è ritrovato con reputazione e carriera danneggiate sul mercato». Da imprenditore miliardario quale è sempre stato, neppure il primo sostenitore dei dazi riesce più a difenderli, davanti allo sconquasso provocato, ai timori di recessione e ai cinquemila miliardi e mezzo statunitensi bruciati in borsa già nei primi due giorni.

Pure le borse europee – quella di Milano in primis – ne sanno qualcosa, ma mentre Giorgetti è impegnato a freddare il tutto con un «Le borse agiscono in modo talvolta irrazionale», come se il non fare nulla fosse «l’unica razionalità» possibile, intanto il mondo degli affari negli Stati Uniti stessi è il primo a dare feedback negativi all’inquilino della Casa Bianca.

«Political bloodbath»

E sicuramente Trump non potrà ignorare gli avvertimenti che arrivano ormai in modo esplicito dal fronte repubblicano stesso. «Political bloodbath»: un bagno di sangue politico, una carneficina in vista alle prossime elezioni di metà mandato. Questo aspetta i repubblicani, secondo il senatore repubblicano texano Ted Cruz, qualora l’azzardo di Trump fallisca e invece del presunto boom economico si verifichi una guerra commerciale che lascia lavoro e salari americani a terra.

A ciò si aggiungono le proteste di piazza che attraversano gli States – oltre un migliaio di iniziative – nelle ultime ore: al grido di «Hands off!» ( “Giù le mani!”), svariate organizzazioni della società civile, compresi i veterani e i sindacati, smascherano di fatto la messa in scena del giardino delle rose, in cui Trump si presentava come difensore della working class. E reagiscono ai licenziamenti di funzionari pubblici, agli attacchi ai diritti sociali e civili.

La scommessa a rischio

«HANG TOUGH, tenete duro. La Cina è molto più colpita di noi. Gli investimenti fioccano a migliaia di miliardi. Riporteremo in Usa aziende e lavoro come mai prima, questa è una rivoluzione economica e la vinceremo», insiste Trump dal suo account Truth, che sa però di post-truth, di post-verità, dato che il presidente continua a sostenere che «il grande business non teme i dazi» mentre le testate economiche riportano il contrario.

Il presidente parla anche di un «grande e bellissimo accordo che darà una super carica alla nostra economia». Al netto delle deroghe che può sperare di strappare per i broligarchi tech, c’è l’idea cara a Trump che una svalutazione del dollaro possa galvanizzare manifatture ed esportazioni. «La radice degli squilibri economici sta nella persistente sopravvalutazione del dollaro», recita una analisi di Stephen Miran, architetto della strategia trumpiana dei dazi che da marzo è alla guida del Council of Economic Advisers.

Ma pure questo piano è appeso alla remissività o meno degli attori in campo: i controdazi (che non a caso i trumpiani, e i più trumpiani di Trump nostrani, non vogliono neppure mettere sul tavolo negoziale) potrebbero inficiarlo, per dirne una. Senza contare gli inciampi: l’imbarazzo di Bessent è solo un caso.

Trump incontra anche altre resistenze: per quanto in pochi mesi abbia già preso a strattoni l’equilibrio fra poteri, la sua pretesa che vengano tagliati i tassi non viene per ora assecondata da Jerome Powell. Il presidente della Federal Reserve avverte: «La banca centrale tenterà di impedire che le impennate dei prezzi dovute ai dazi si trasformino in inflazione costante».

L’Italia frena l’Unione

Dopo che il commissario Ue al Commercio Maroš Šefčovič si è congedato dalla videotelefonata di venerdì con gli omologhi Usa comunicando l’ennesimo «Ci si risente presto», pure ai più filoamericani d’Europa è ormai chiaro che negoziare senza neanche portare al tavolo le contromisure – mentre i dazi Usa almeno al 10 per cento sono già in vigore da questo sabato – sarebbe suicida anche solo dal punto di vista tattico.

«Dobbiamo attivare controdazi, non si tratta di escalation, ma di determinazione», arriva a dire ad esempio Manfred Weber, il leader del Ppe vicino a Meloni. Il punto non è tanto se davvero Bruxelles arriverà a colpire i servizi tech Usa o ad attivare il proprio strumento anticoercizione (“Aci”), ma che almeno debba ventilarlo – dare il via al piano – per negoziare.

Si tratterebbe della traduzione in ambito di guerra commerciale di quello slogan che la premier era pronta a ripetere: «La pace attraverso la forza». Eppure, adesso che da fronteggiare c’è l’amico Trump, il governo Meloni – più trumpista del re – pare non volerne sapere.

Oltre alla premier, pure il ministro Giorgetti questo sabato da Cernobbio ha mandato un messaggio pubblico di contrarietà ai controdazi. E, invece di reagire a Trump, ha preferito spostare lo scontro dentro l’Ue: mentre la Spagna ha sùbito annunciato 14 miliardi di aiuti, il governo italiano li vincola a una richiesta di deroga sul Patto di stabilità.

Lo aveva fatto anche quando si era parlato di aumento delle spese militari; salvo che, una volta ottenuta la deroga su questo, si era magicamente accorto che non bastava.

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