Nel disegno della Resilience and recovery facility europea si vede il segno distinto dii due approcci.

Il federalismo sociale pesa in diverse direzioni: la logica delle missioni strategiche, con un’enfasi forte sulla transizione energetica (profilo che non devi sottovalutare); la natura delle condizionalità che i Piani nazionali di attuazione devono soddisfare, con un elenco di «riforme» che non riflette solo l’esempio dei piani di rientro della politica macroeconomica, ma anche l’attenzione alle condizioni istituzionali e di contesto necessarie per fare accadere davvero le cose, e con una funzione di accompagnamento da parte della Commissione europea; la previsione di target a cui sono condizionate le erogazioni, espressi non solo in termini di risultati normativi, di spesa o di realizzazione di opere (output), ma anche di risultati relativi allo «star bene» delle persone (outcome).

Ma, al tempo stesso, l’approccio del centralismo nazionale si fa sentire: «continuismo con l’impianto tradizionale del “Semestre Europeo” debole riferimento alle opportunità di accesso ai servizi fondamentali passo indietro sul fronte digitale rispetto allo stesso discorso sullo Stato dell’Unione della presidente von der Leyen per cui digital prende il posto di smart come parola ammiccante e tutto pare risolversi con la “digitalizzazione”», scrivemmo con Sabina De Luca già nell’ottobre 2020 (Il Sole 24 Ore, 2 ottobre).

E poi pesa la preoccupazione che i paesi non centrino gli obiettivi. Ciò spinge a ripiegare sempre più su target di mera spesa, abbassando l’asticella rispetto a un primo disegno e accettando con rapidità i Piani nazionali dei paesi.

Quella logica di keynesismo bastardo – basta che si spenda, per sostenere la domanda – di cui abbiamo già parlato, che è congeniale, quando serve, al centralismo nazionale neoliberista, ha conquistato spazio anche dentro l’approccio del federalismo sociale.

Laddove questo, invece, dovrebbe assumere che spese straordinarie come quelle della Rrf siano rivolte a cambiare il corso delle cose, non a sopravvivere la nottata. Ecco allora spiegata anche la vicenda italiana. La disponibilità europea ad accettare con poche raccomandazioni il Piano nazionale di ripresa e resilienza predisposto dal governo Draghi, carico ancora di quasi tutti i limiti della precedente versione del governo Conte.

La partecipazione che manca

Ma, più in generale, pesa nel disegno e nell’attuazione della Rrf la tendenza che ho prima riconosciuto di una parte significativa dei «federalisti sociali» a ritenere il metodo di politica pubblica rivolto alle persone nei luoghi come uno strumento sostanzialmente narrativo, di immagine, di cui si può in realtà fare a meno.

È quanto risulta da uno studio dedicato a tre programmi nazionali, italiano, spagnolo e portoghese, How place-sensitive are the Nrrps, chiuso a fine 2022 da Giovanni Carrosio, Gloria Cicerone, Alessandra Faggian e Giulia Urso nell’ambito della partecipazione del ForumDD al progetto di ricerca europeo «Recovery Watch» coordinato dalla Foundation for European Progressive Studies (Feps).

Esaminando il disegno dei piani, lo studio conclude che mancano gli ingredienti fondamentali di un genuino approccio di federalismo sociale democratico e sperimentale: «L’analisi della dimensione partecipazione rivela che in nessun caso vi è stata una consultazione informata, aperta ed ampia sulla definizione dei bisogni e delle sfide da affrontare, nonché dei relativi possibili interventi. Le politiche intersettoriali risultano poco integrate e mancano di un focus territoriale anche quando, come in Italia, viene rivolta una particolare attenzione ai luoghi marginalizzati. La governance rivela una generale debolResilience and recovery facility europea si vede il segno distinto di due approcci.

Il federalismo sociale pesa in diverse direzioni: la logica delle missioni strategiche, con un’enfasi forte sulla transizione energetica; la natura delle condizionalità che i Piani nazionali di attuazione devono soddisfare, con un elenco di «riforme» che non riflette solo l’esempio dei piani di rientro della politica macroeconomica, ma anche l’attenzione alle condizioni istituzionali e di contesto necessarie per fare accadere davvero le cose, e con una funzione di accompagnamento da parte della Commissione europea; la previsione di target a cui sono condizionate le erogazioni, espressi non solo in termini di risultati normativi, di spesa o di realizzazione di opere (output), ma anche di risultati relativi allo «star bene» delle persone (outcome).

Ma, al tempo stesso, l’approccio del centralismo nazionale si fa sentire: «continuismo con l’impianto tradizionale del ezza del ruolo dei governi locali nella programmazione e attuazione dei piani». Questi tratti indeboliscono l’efficacia della Rrf come strumento di cambiamento, in tutti i campi. Ne è esempio l’intervento rivolto a migliorare i servizi per la prima infanzia. Mi riferisco allo studio curato, nell’ambito dello stesso progetto, da Christian Morabito, Francesco Corti, Tomas Ruiz e Patrizia Luongo (2022), sulle misure adottate da Italia e Spagna – in questi due casi, con particolare e condivisibile attenzione al riequilibrio fra aree con forti differenziali di intervento – e da Germania, Portogallo e Slovacchia.

Gli autori mostrano, ad esempio, che «mancano il supporto e l’assistenza tecnica per la presentazione dei progetti per consentire agli enti più deboli di avanzare proposte in linea con la richiesta dei bandi». Ma ci sono altri fronti dell’azione dell’Unione europea dove i due approcci si distinguono nettamente. E ci restituiscono un’immagine dell’Ue non schiacciata su una sola dimensione. Il federalismo sociale, in particolare, pesa in modo significativo sul fronte sia dei diritti digitali, con risultati importanti conseguiti (ma non nella Rrf), sia della governance delle imprese, con risultati ancora in sospeso.

In tema di accesso e uso dei big data, dopo il Regolamento generale sulla protezione dei dati del 2016, che ha posto l’Unione all’avanguardia rispetto ai due grandi sistemi statunitense e cinese, e ha introdotto principî importanti nell’uso dell’intelligenza artificiale – come il fatto che, in generale, non possano essere adottate decisioni sulla base di esiti di algoritmi di apprendimento automatico se non se ne esplicita la logica –, è stato compiuto un ulteriore passo con il Data Governance Act del 2022.

La direttiva si dà carico del fatto, come scrivono Carmelo Caravella, Piero De Chiara e Giulio De Petra (2022) – che ne ricavano proposte importanti per l’Italia – che «i dati, anche quando sono personali, hanno sempre natura e implicazioni sociali riguardano sempre anche una pluralità di altre persone che con quella singola hanno connessioni dirette e indirette». E dunque prevede «il riuso dei dati del settore pubblico che sono normalmente soggetti a limitazioni, la condivisione di dati (personali e non personali) attraverso la diffusione e la regolamentazione di servizi di intermediazione, la promozione di esperienze no profit di uso dei dati per finalità di interesse generale, attraverso la previsione di norme nazionali che possano favorire l’altruismo dei dati e la regolamentazione di organizzazioni a tal fine costituite».

Imprese e conoscenza

Significativa è anche la prospettiva di una direttiva sulla Corporate Sustainability Due Diligence, proposta dal Parlamento europeo e dal Consiglio.

Come ha osservato il ForumDD (2022b), sono particolarmente rilevanti i seguenti profili: «l’adozione di norme imperative con precisi doveri che si estendono lungo l’intera catena del valore; l’introduzione di doveri di diligenza che vincolano gli amministratori a porre sotto controllo rischi riguardanti interessi generali e di terzi, cioè la violazione di diritti umani nonché la creazione di danni ambientali, e l’aver collegato tali doveri al perseguimento dell’obiettivo della sostenibilità in sé, e non alla massimizzazione del valore degli investimenti finanziari; il coinvolgimento degli stakeholder in fasi particolarmente rilevanti del processo di attuazione delle politiche aziendali di due diligence; l’istituzione nei singoli paesi membri di autorità di sorveglianza indipendenti, scevre da conflitti di interesse, e dotate di poteri; l’estensione degli obblighi di due diligence in materia di diritti umani e impatti sull’ambiente non solo a società con sede in Ue, ma anche costituite al di fuori dell’Ue ma operanti in Europa».

Qui il confronto è ancora aperto, Di tutt’altro segno è la chiusura dell’Unione europea a ogni azione che riduca il potere monopolistico di controllo della conoscenza.

Questa posizione ha assunto tratti gravi in occasione della pandemia. Di fronte alla proposta avanzata nell’ottobre 2020 all’Omc da India e Sudafrica di attivare la clausola di sospensione dei diritti di proprietà intellettuale previsti dagli Accordi Trips, la posizione dell’Unione europea e della presidente della Commissione è di immediata opposizione. Questa viene reiterata nel maggio 2021, quando l’amministrazione Biden esprime un’improvvisa apertura.

Leggendo l’interessante ricostruzione Who Killed the Covid Vaccine Waiver? da parte di «Politico» (novembre 2022), che descrive la massiccia azione di lobbying europea delle Big Pharma, si è colpiti dalla forte e diffusa adesione dei vertici amministrativi e politici della Commissione all’idea che la sospensione avrebbe minacciato il contrasto della pandemia, in quanto l’assunzione di rischio da parte delle imprese farmaceutiche sarebbe il motore per arrivare ai vaccini e tale rischio ben motiva extra-profitti oligopolistici.

I dati disponibili smentiscono seccamente questa tesi e la scelta compiuta. In base a uno studio commissionato dal Parlamento Ue per nove vaccini, risultano, per il periodo 2020-21, i seguenti importi delle «spese a rischio», ossia realizzate prima dell’autorizzazione dei vaccini: quelle delle imprese produttrici sono stimabili in 15-16 miliardi di euro, di cui 4-5 in Ricerca e Sviluppo e circa 11 in investimenti di produzione; quelle venute dall’esterno (in larghissima maggioranza dagli Stati) sono pari a 29 miliardi di euro.


 

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