Fino a ieri mattina sulla stampa francese non c’era quasi traccia dell’incontro tra il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron e il premier italiano Mario Draghi, che si terrà questa sera a Marsiglia, per discutere soprattutto della crisi in Afghanistan.

Il viaggio di monsieur le président organizzato nella seconda città di Francia faceva notizia di per sé per la sua peculiarità. Macron ha programmato una visita prolungata, tre giorni di permanenza, un tempo che durante il suo mandato non aveva mai dedicato a nessun altro capoluogo, accompagnato da uno stuolo di ministri del governo.

L’obiettivo, secondo la maggioranza degli osservatori, è cercare di mostrare l’attenzione dell’esecutivo per una città dove la sicurezza è tema martellante delle cronache locali e i conflitti etnici sono più evidenti che altrove. Cercare, con la campagna elettorale del 2022 sempre più vicina, di togliersi di dosso almeno parte di quell’aura da presidente molto bianco e molto parigino.

Insomma una visita che rammenta gli itinerari delle corti dei re francesi pronti a intraprendere faticosi viaggi nel regno per pacificarne i territori. Una visita orientata a mostrare forza in un momento di debolezza. Questa cornice interna va tenuta ben presente per valutare l’incontro tra Macron e Draghi.

Il presidente francese è un interlocutore fondamentale per Draghi, impegnato a fare dell’Italia presidente di turno del G20 il perno di un confronto diplomatico allargato su scala globale sulla situazione afghana. Macron arriva all’appuntamento con difficoltà interne anche su temi securitari, dopo aver ricevuto pesanti smentite anche sul piano diplomatico. Negli ultimi giorni, tutti i principali attori hanno fatto le loro mosse: Macron e il premier britannico Johnson hanno cercato di far passare al consiglio di sicurezza l’idea di una green zone a Kabul per proseguire le evacuazioni. In questo modo avrebbero potuto rivendicare il supposto testimone morale dell’occidente, abbandonato nella polvere di Kabul dagli Stati Uniti. Ma, tanto per ricordare che il mondo attuale ha equilibri più complessi, Cina e Russia con il loro veto hanno rapidamente archiviato le ambizioni franco-britanniche.

Per tutta risposta il presidente degli Stati Uniti Joe Biden nel suo discorso di commiato dalla guerra afghana ha detto che proprio Mosca e Pechino finora hanno vissuto di rendita godendo dei benefici del ruolo di stabilizzatore delle tensioni globali svolto finora dagli Stati Uniti. Non proprio un messaggio distensivo, per usare un aggettivo in voga. Infine il presidente russo Putin ha lanciato l’idea di una conferenza internazionale per la ricostruzione dell’Afghanistan, sul modello di quella organizzata dall’Ue sulla Siria. I russi non hanno chiarito se la proposta sia in concorrenza o compatibile con i tentativi italiani di portare tutti al tavolo di un G20 allargato, ma sicuramente sanno che un tale progetto di aiuti economici è sensibile per le orecchie di Bruxelles.

Draghi e Macron si conoscono e stimano da anni. Sul fronte delle soluzioni economiche li si può considerare alleati dai tempi in cui il presidente francese era il ministro di François Hollande, ma invece sul piano delle relazioni internazionali il rapporto è necessariamente più complesso. Draghi, però, si è trovato di fronte un Macron ridimensionato e probabilmente più incline di prima a dargli spazio. Il premier italiano, aiutato anche dall’abito del G20 che lo costringe a incarnare l’approccio multilaterale, si è mosso finora con il consueto understatement. Ma oggi, oltre a discutere del futuro trattato del Quirinale per regolare i rapporti bilaterali italo francesi, a Macron porta in dono, non si sa quanto gradito, l’accordo con il ministro degli esteri russo per il ritiro «simultaneo» delle truppe straniere dalla Libia, e soprattutto la possibilità di concordare le prossime mosse con la Cina.

 

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