Nessuna novità dalle decisioni di giovedì della Bce, salvo una probabile accelerazione, nei prossimi tre mesi, del ritmo degli acquisti di titoli previsti dallo speciale programma di supporto pandemico, che peraltro rimane invariato nel suo insieme. Fino a quando il Covid-19 non avrà cessato di colpire le economie e costringere a rimedi di finanza straordinaria, non è opportuno che le politiche monetarie diventino meno espansive, rendendo più costoso e difficile il finanziamento dei debitori pubblici e privati. Detto questo, non è troppo presto per prepararsi ad almeno tre problemi creati dall’espansione monetaria globale degli ultimi lustri: la possibile ripresa dell’inflazione, anche oltre limiti accettabili; l’ingente crescita di debiti privati e pubblici e i dubbi circa la loro sostenibilità; i rapporti fra politiche monetarie e di bilancio, i cui ruoli sono andati sovrapponendosi fino a confonderne le responsabilità.

La questione dell’inflazione è al momento padrona della scena. In particolare, l’aumento delle aspettative di inflazione è considerato alla radice della recente crescita dei tassi di interesse a medio-lungo termine e della conseguente caduta dei prezzi delle obbligazioni. Il fenomeno è cominciato negli Stati Uniti ma ha già avuto qualche riflesso nell’Eurozona. In realtà in America l’inflazione effettiva è ancora contenuta (1,4 per cento all’anno in febbraio), più di 1 punto percentuale inferiore a quella precedente alla pandemia.

Le aspettative sull’evoluzione dell’inflazione in America sono molto incerte e diverse, la loro mediana è ancora prossima all’inflazione effettiva ma è in crescita verso il 2 per cento e oltre. Va ricordato che alla fine del 2019 era al 2,5 e nel 2018 aveva quasi raggiunto il 3 per cento. I rendimenti sui titoli governativi statunitensi a lungo termine sono cresciuti da 0,9 per cento di inizio anno a più di 1,5 per cento, riavvicinandosi ai livelli di fine 2019. Il loro aumento potrebbe continuare molto: a metà 2018 erano al 3,25 per cento e, oltre che per le aspettative di inflazione, salgono per le buone prospettive di crescita post-pandemica dell’economia americana. Nella quale le aspettative sui tassi di inflazione e di interesse si accompagnano a un miglioramento della pandemia nel paese e al successo di Biden nel varo di un provvedimento di grande espansione fiscale.

In trappola

I tassi americani influenzano quelli europei, che sono però saliti moderatamente e sono sempre bassissimi. La prossima accelerazione degli acquisti di titoli annunciata dalla Bce mira anche a calmierare il riflesso sui tassi europei di quelli statunitensi. Dal 2015 il rendimento medio dei titoli governativi a 10 anni dei paesi dell’Eurozona si è raramente avvicinato al 1,5 per cento ed è precipitato verso lo zero un anno prima della pandemia. Dal -0,1 per cento di fine 2020 è cresciuto meno di 20 punti base, con “spread” fra i paesi membri in via di riduzione ma ancora significativi: 1 punto fra Italia e Germania dove chi presta al governo per 10 anni “paga” un interesse di più di 30 punti base.

Perciò, da un punto di vista monetario, gli Stati Uniti sono quasi normali, mentre da noi la situazione è da tempo anomala. Anche perché se è vero che le nostre prospettive di crescita sono meno buone, negli ultimi mesi l’inflazione è salita più da noi che negli Usa: da prezzi che scendevano (-0,3 per cento annuo) a inflazione dell’1 per cento. Lagarde ha insistito che si tratta di un aumento transitorio ma non ha escluso che entro l’anno si possa toccare il 2 per cento. Il tasso di interesse reale medio dei titoli governativi a lungo nell’Eurozona, già negativo, scende dunque di un altro punto percentuale.

Le banche centrali hanno un problema serio con l’inflazione: da un lato si tratta del loro principale obiettivo; dall’altro non solo hanno grandi difficoltà a farla salire verso il famoso obiettivo del 2 per cento, ma rischiano un domani, se i prezzi scattassero in su improvvisamente, di stentare a trattenerli. Infatti i tassi molto bassi e i prezzi molto alti dei titoli obbligazionari e azionari sono una trappola: restringendo la liquidità, per frenare l’inflazione, potrebbero precipitare e perciò la restrizione rischia di non aver luogo, per timore che inneschi una crisi finanziaria. Quando le banche centrali annunciano di voler tenere i tassi bassi (o nulli e negativi come in Europa) per tanto tempo ancora, dichiarano dunque di essere in trappola. Occorrerebbe cominciare a spiegare come si potrà gradualmente uscirne.

Anche perché ci sono gli altri due problemi prima ricordati. I debiti privati e pubblici aumentano in quantità e peggiorano in sostenibilità, con gli investitori a caccia di attività che essi accettano siano molto rischiose, purché rendano decentemente. La pandemia ha accentuato il fenomeno espandendo i disavanzi pubblici e moltiplicando le imprese zombie. C’è un problema di stabilità finanziaria che non entra in modo esplicito negli obiettivi di politica monetaria. La strategia della Bce, in particolare, non è trasparente perché, a norma del testo attuale dei Trattati e del suo Statuto, deve giustificare ogni sua decisione con l’obiettivo dell’inflazione al 2 per cento mentre la sua vera preoccupazione pare essere la sostenibilità dei debiti pubblici e privati. Se un livello corretto di inflazione è una condizione favorevole alla stabilità finanziaria, non è detto sia sufficiente: potrebbe anzi succedere che sia una grave crisi finanziaria a precedere una forte deflazione o una grande inflazione. Occorre riorientare le strategie delle banche centrali aumentando la trasparenza e l’importanza degli obiettivi di stabilità finanziaria.

Sovrabbondanza di moneta

Andrebbero monitorate meglio anche le conseguenze delle politiche monetarie sull’allocazione delle risorse: con troppa liquidità i tassi di interesse diventano troppo bassi e uniformi, non riflettono adeguatamente rischi e produttività e quindi non indirizzano bene prestiti e investimenti. Inoltre la sovrabbondanza di moneta rigonfia i prezzi mobiliari e immobiliari peggiorando scandalosamente la distribuzione della ricchezza. Nuove direzioni nelle strategie monetarie andrebbero condivise fra le maggiori banche centrali del mondo in un’ottica multilaterale perché il loro perseguire obiettivi nazionali perde senso con l’intensa interdipendenza dei mercati finanziari di tutto il mondo.

Vi è infine il tema del rapporto con le politiche di bilancio. Nell’Eurozona è stata per ora accantonata l’improvvida sentenza dell’anno scorso della Corte tedesca che sospettava il Quantitative Easing di andare oltre il mandato della Bce, con effetti distributivi che spetterebbero a decisioni di bilancio, compresa l’eccessiva facilitazione del finanziamento pubblico di paesi già troppo indebitati, come il nostro. È un tema che potrebbe risvegliarsi: se durante la pandemia è stato opportuno per tutti far finta di niente, non è detto che sia bene continuare a farlo ancora a lungo. Una volta completato il varo del Next Generation Eu (Ngeu) la questione dell’azzardo morale, cioè del fenomeno per cui tassi bassi e liquidità sovrabbondante attenuano l’attenzione dei governi alla qualità e quantità dei loro disavanzi, tornerà a essere di rilievo. Più a breve, converrebbe sapere quanti dei 1.900 miliardi di dollari del provvedimento Usa e dei 750 miliardi di euro del Ngeu saranno finanziati, direttamente o indirettamente, rispettivamente dalla Fed e dalla Bce. Infatti il sostegno monetario alle due espansioni fiscali farà differenza per il livello dei tassi di interesse e dell’inflazione.

Inoltre, tanto più ampio sarà quel sostegno, quanto meno potremo contare sui mercati globali per monitorare, giudicare e disciplinare l’uso degli stimoli fiscali, la bontà e chiarezza dei loro contenuti, la credibilità degli esiti che promettono, l’allocazione delle risorse che propongono: cosa che le banche centrali non devono né possono fare. A meno che la sovrapposizione fra le loro responsabilità e quelle dei governi non aumenti ancora fino a fare come qualcuno vorrebbe: eliminare l’indipendenza delle banche centrali consolidandole del tutto con le funzioni e i conti dei governi. Una garanzia in meno di autocontrollo delle politiche economiche.

 

© Riproduzione riservata