Nell’agosto del 1991 George H.W. Bush firmò una National Security Strategy contraddistinta da un inedito ottimismo, almeno rispetto ai documenti precedentemente prodotti all’ombra del confronto tra Washington e Mosca. Al suo interno, tuttavia, il presidente non mancava di ricordare che l’Urss restava comunque in grado di «distruggere la società americana con un unico, catastrofico attacco».

Solo quattro mesi dopo, il titanico avversario degli Stati Uniti implose. Il collasso dell’Urss stupì molti, compresi quei cosiddetti “sovietologi” che se ne occupavano per professione. E stupì ancor di più in quanto, per la prima volta nella storia moderna, la ridefinizione dell’ordine internazionale non costituì l’esito di uno scontro militare tra le potenze che se ne erano contese la guida, ma dell’improvvisa scomparsa dalla scena di uno dei contendenti. L’evento fu così definito «strano e sorprendente» da George Kennan, «inaspettato» da Richard Pipes, mentre Martin Malia ne parlò come della «più grande sorpresa della fine del Ventesimo secolo».

La Federazione Russa, che raccolse l’eredità politico-giuridica della superpotenza sovietica, si trovò in un ambiente internazionale dove era guardata a tutti gli effetti come un paese “vinto”, sebbene da “reintegrare”. Un’idea che per chi ne assunse le redini era difficile da accettare. Sia perché l’Urss non era incappata in una débâcle militare. Sia perché non si erano materializzate variazioni significative in quei fattori oggettivi e strutturali la cui interazione con le preferenze delle élite e le qualità delle istituzioni nazionali solitamente è all’origine della politica estera di uno Stato.

Nel 1992, infatti, la Russia restava il Paese con il territorio più vasto al mondo e il sesto per popolazione. Possedeva forze armate che a livello globale erano le seconde per numero di effettivi nonché le prime per numero di testate nucleari e carri armati a disposizione. Controllava, infine, le prime riserve mondiali di gas e le ottave di petrolio.

Pretese egemoniche

Questi indicatori convinsero gli “occidentalizzatori” che affiancavano Boris Eltsin nella prima metà degli anni Novanta – tra cui Egor Gaidar, Andrei Kozyrev, Anatolij Chubais e Viktor Chernomyrdin – della necessità di far riguadagnare quanto prima alla Russia la posizione internazionale che le sarebbe “naturalmente” spettata. Ovvero, quella di grande potenza.

Il conseguimento di tale obiettivo veniva fatto corrispondere principalmente a una qualche forma di riconoscimento da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati dell’esistenza di una sfera di influenza russa, corrispondente pressappoco ai confini sovietici. Su questo spazio, genericamente chiamato “estero vicino”, la Russia cominciò da subito ad avanzare pretese – implicitamente – egemoniche.

I fallimenti della dirigenza eltsiniana e gli sconvolgimenti causati dalla crisi finanziaria del 1998, tuttavia, aprirono le porte prima alla fugace stagione politica di Evgenij Primakov e poi a quella ben più duratura di Vladimir Putin. A differenza dei loro predecessori, sia l’uno che l’altro si mostrarono molto meno convinti della collocazione della Russia nel campo occidentale, mentre si distinsero per politiche ancor più assertive sulla questione dello “status”.

Nonostante la massima attenzione prestata al ripristino della sovranità sul Caucaso settentrionale e al rilancio dell’economia, soprattutto Putin si mostrò particolarmente attento a curare l’immagine esterna del paese. A muoverlo in tale direzione era la consapevolezza che per raggiungere l’egemonia regionale, oltre al primato nella dimensione dell’hard power, occorreva soddisfare almeno altre due condizioni.

Da un lato, tracciare in maniera ben definita il perimetro dell’egemonia russa, per chiarire alle altre potenze i limiti invalicabili oltre i quali non spingersi. Dall’altro lato, trasformare il potere della Russia rispetto agli altri stati post sovietici in qualcosa di quanto più vicino all’autorità. A tal fine, trasformò il Trattato per la sicurezza collettiva in un’Organizzazione (2002) e, più avanti, si pose alla testa del progetto dell’Unione economica eurasiatica (2014).

Al fine di rendere la leadership russa vincolante anche “moralmente” per i paesi che aderivano a queste organizzazioni ed esercitare leve su quelli che erano rimasti fuori, il Cremlino aveva bisogno anche di una formula politica in grado di legittimare la sua azione esterna. L’operazione risultava congeniale a un gruppo dirigente spiccatamente nazionalista come quello putiniano.

Convinto – come era successo di sovente in passato – che la Russia non sia una potenza come tutte le altre, ma che abbia una qualche responsabilità “speciale” nei confronti dell’umanità. L’eccezionalismo russo, d’altronde, aveva trovato compimento in età imperiale nella “missione civilizzatrice” in Asia centrale ed estremo oriente, mentre in quella sovietica era stato declinato nella promozione globale del comunismo.

Risultando inservibili le formule politiche del passato, l’élite putiniana ne ha individuato una nuova nel Russkij Mir (“mondo”, ma anche “pace” russa). Gli elementi essenziali di questo concetto erano già stati abbozzati nel 1992 da Sergej Karaganov, quando però il paese aveva scarse risorse a disposizione e una serie di priorità strategiche che gli impedivano di affinare i suoi strumenti di politica estera.

Secondo il politologo e consigliere presidenziale sia di Eltsin che di Putin, Mosca avrebbe dovuto rinsaldare i legami con la diaspora russa e russofona presente nelle quattordici repubbliche divenute indipendenti dopo il 1991. Avrebbe dovuto, inoltre, proporsi quale garante dei loro diritti nel caso in cui le peculiarità etniche o linguistiche di queste persone fossero state all’origine di discriminazioni da parte delle nuove autorità nazionali.

Cultura e dottrina politica

La preservazione di un legame saldo con comunità anche numericamente rilevanti, come in Ucraina o in Kazakistan, ne avrebbe assicurato la fedeltà alla Russia e, quindi, l’influenza sulle principali scelte politiche ed economiche dei paesi in cui esse risiedevano.

Negli anni Duemila il sistema di appartenenze a cerchi concentrici del Russkij Mir è stato progressivamente esteso, arrivando a includere i cristiani ortodossi e, più in generale, i cristiani d’oriente.

Successivamente, in un quarto cerchio sono ricaduti i cosiddetti “compatrioti”. Inizialmente questo termine indicava i cittadini di altri paesi che possedevano anche la cittadinanza russa, moltiplicatisi negli anni Duemila grazie alla politica della “passaportizzazione” ovvero la concessione agevolata del passaporto russo. Successivamente, però, l’idea del “compatriota” ha assunto un’accezione via via più ideologica e, potenzialmente, universalista, ricomprendendo quanti avvertono un legame spirituale e culturale con la Russia.

Dopo una prima fase di elaborazione teorica, il Russkij Mir ha trovato una collocazione ufficiale nella politica russa. Nel 2007 la Fondazione omonima è stata istituita dai ministeri russi degli Affari esteri e dell’Educazione in collaborazione con la Chiesa ortodossa e oggi opera in tutto il mondo con l’obiettivo ufficiale di diffondere la lingua e la cultura russa. Nel 2016, invece, il Russkij Mir ha avuto anche una consacrazione “dottrinaria”, risultando integrato nel Concetto di politica estera della Federazione Russa, dove si legge che «le attività di politica estera dello stato devono mirare ad assicurare una protezione onnicomprensiva ed effettiva dei diritti e degli interessi legittimi dei cittadini russi e dei compatrioti residenti all’estero».

Errori

Nel frattempo, tuttavia, il concetto era già stato utilizzato dalla Russia per invocare una qualche “responsabilità a proteggere” gli osseti del sud contro le autorità georgiane nel 2008, la popolazione della Crimea con l’annessione nel 2014 e le minoranze cristiane con l’intervento in Siria nel 2015. Questo inverno, invece, il Cremlino vi si è parzialmente appellata per giustificare il sostegno ai secessionisti del Donbass e l’invasione dell’Ucraina.

Il legame identitario, tuttavia, non ha funzionato come previsto. Le truppe di Mosca, infatti, hanno incontrato la resistenza più dura proprio in aree – come quelle di Kharkiv o di Mariupol – dove in teoria i legami culturali con la Russia sono più forti. Sono così usciti allo scoperto i punti di forza, ma soprattutto quelli di fragilità del Russkij Mir. Mai come in questo caso, avrebbe detto Lenin, «ci sono dei decenni in cui non accade nulla e poi delle settimane in cui accadono decenni».

 

© Riproduzione riservata