Per capire cosa è successo questo lunedì sotto la lanterna del Consiglio Ue Affari Esteri, perché ancora una volta i governi non agiscano contro il massacro a Gaza e per quale motivo sia Kaja Kallas – “ministra degli Esteri” dell’Ue – che Ursula von der Leyen siano così afone quando si tratta anche soltanto di pronunciare nelle loro dichiarazioni le parole «Stati Uniti» e «Israele», bisogna guardare anzitutto fuori dall’angolo ristretto di rue de la Loi, sede del Consiglio, o palazzo Berlaymont, quartier generale della Commissione.

In quest’era trumpiana dove ormai la legge della forza pesa più del diritto, anche le dinamiche interne all’Ue – che già andava a rilento e frammentaria – si schiacciano sempre di più su alcune posizioni. Si deve allora cominciare dall’Aia – riflesso di Washington – e da Berlino.

Trump, Rutte, Merz

Questo martedì all’Aia inizia un decisivo vertice Nato, al quale Donald Trump aveva promesso di partecipare e che in ogni caso nasce sulla spinta (o sotto il pesante spintone) statunitense agli europei perché aumentino le spese militari. Già alla vigilia, il segretario generale dell’Alleanza atlantica, l’ex premier olandese Mark Rutte, ha schiacciato anche le posizioni sulla guerra in corso a favore di Washington, sostenendo di «non concordare» sul fatto che gli Stati Uniti, attaccando l’Iran, abbiano violato il diritto internazionale.

Nelle stesse ore, il capo del governo che ha più peso nelle dinamiche decisionali dell’Unione europea – non foss’altro che per la tendenza di von der Leyen ad andare al suo traino – ha dichiarato che «non c’è motivo di criticare Israele per quel che ha fatto una settimana fa», cioè avviare la guerra in Iran, «né c’è motivo di criticare quel che l’America ha fatto lo scorso weekend». Il leader in questione è Friedrich Merz, che già aveva fatto scalpore sostenendo: «Israele fa il lavoro sporco per tutti noi». La somma delle sue dichiarazioni fa capire il reale peso dato alla parola «de-escalation» ripetuta in ogni uscita pubblica europea: per alcuni è solo l’Iran che dovrebbe non reagire. Il cancelliere tedesco si è spinto a dire, questo lunedì, che in Iran «lasciare le cose come stavano non era un’opzione», pur «consapevole che «ci sia un rischio di escalation». Il leader della Csu, Markus Söder, si è spinto persino più in là: a suo dire l’Ue è colpevole di non svolgere un ruolo di primo piano, non nel senso che non usa tutte le leve per disinnescare il conflitto in corso, bensì perché «si deve mostrare solidarietà con Israele» e «noi sosteniamo gli Usa».

Dall’inizio della crisi iraniana, deflagrata con gli attacchi israeliani di venerdì 13, Berlino ha vantato «un coordinamento stretto» con Parigi e Londra (E3); il coordinamento era altrettanto «stretto» con Trump, oltre ai contatti (anzitutto di Merz) con Netanyahu. Pure prima della mossa di Ginevra, il ministro degli Esteri britannico era a Washington a concordare la linea. Lo schema dei «volonterosi» battezzato sull’Ucraina sta diventando ormai uno schema collaudato che sposta gli equilibri europei, dirottando ancor di più il ruolo armonizzatore del consesso a 27. I vecchi difetti – cioè le divisioni – però restano; solo che fanno da alibi per alcuni così da scavalcare – a «doppia velocità» – gli altri.

La sfuggente Kallas

Questo è il quadro: all’interno del quadro, c’è il Consiglio Ue di questo lunedì, con le comunicazioni di Kaja Kallas all’uscita dall’incontro. L’ex premier estone si è dilungata sull’impegno per l’Ucraina, sorvolando sul fatto che Trump abbia abbandonato sia il dossier in generale che il piano per irrigidire il tetto ai prezzi sull’energia; pochissime parole invece sull’Iran, nelle quali c'è il riconoscimento che «le azioni militari abbiano inasprito le tensioni» e che «le azioni militari generano incertezza», ma pure il rifiuto di stigmatizzare in qualche modo l’intervento di Trump o Netanyahu. I cronisti che hanno provato più volte a capire se Kallas abbia riferito a Washington un malcontento sono rimasti a bocca asciutta.

C’è poi il dossier dell’accordo Ue-Israele, sul quale l’alta rappresentante è altrettanto evasiva se si guarda ai fatti. Per mesi e mesi, governi come quello spagnolo e irlandese avevano sollevato il tema della tenuta dell’accordo Ue-Israele, che all’articolo 2 presuppone il rispetto di diritti umani e diritto internazionale umanitario; di recente, quando il peso del massacro ha sfondato anche i silenzi europei, l’Olanda era riuscita a far mettere in agenda una revisione dell’accordo. E il rapporto indipendente finito questo lunedì sul tavolo dei ministri confermava la conclamata violazione dei diritti, dunque dell’accordo; il che darebbe adito a contromisure, sanzioni.

Invece Kallas ha ripiegato su una proclamata interlocuzione col governo israeliano, nella dichiarata speranza di smuovere «aiuti concreti alla popolazione», senza però accennare ad alcuna sanzione: sollecitata sul tema, ha rinviato a luglio eventuali azioni.

Questo a dispetto del fatto che alcuni – come il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares Bueno – avessero reclamato «fatti, non parole». La Spagna questo lunedì ha anche segnalato che «la guerra in Medio Oriente, destabilizzatrice per Mediterraneo e Europa, seppellisce il diritto internazionale e l’abolizione della guerra come forma di risoluzione dei conflitti. Entrambi concetti nati in Europa: se l’Europa non li difende, l’intera umanità resterà orfana».

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