Uno strano senso di vertigine deve aver colto i telespettatori francesi la sera dello scorso 11 febbraio assistendo al dibattito televisivo tra il ministro dell’Interno Gérald Darmanin e Marine Le Pen.

Da mezzo secolo in Francia il nome Le Pen è associato all’estrema destra, fin dalla fondazione nel 1972 del Fronte nazionale da parte di una piccola combriccola di nazionalisti, populisti e neofascisti. In principio era Jean-Marie, il padre. E malgrado il restyling operato nell’ultimo decennio dalla figlia Marine – che ereditando il partito lo ha reso più presentabile, rinominandolo Rassemblement National –  il nome Le Pen continua a rifulgere all’estrema destra dello spettro politico. La lotta all’immigrazione, in particolare quella di matrice islamica, resta al cuore della sua offerta politica.

Così quando davanti alle telecamere il serafico Darmanin ha accusato Le Pen di essere troppo “molle” sui temi caldi del multiculturalismo, lo spettacolo è stato indubbiamente spiazzante. Dapprima la conduttrice balbetta: «Sta dicendo che Marine Le Pen è… molle?». La deputata inclina la testa, non capisce, ha lo sguardo perso nel vuoto: le aveva sentite tutte, ma questa evidentemente no.

Il ministro insiste, col sorriso sulle labbra, e spiega di ritenere la linea di Le Pen più molle di quella del governo. Alla presidente del Rassemblement National consiglia: «Dovrebbe prendere delle vitamine, non è abbastanza dura». Lei allibita. Strabuzza gli occhi. Accusata di non prendere di petto la questione dell’Islam, è costretta, lei, a ricordare i principi della libertà religiosa. Alla fine del dibattito, il conduttore chiosa: «Abbiamo l’impressione che dite e pensate esattamente la stessa cosa».

Oltre il calcolo politico

Non è la prima volta che il centrodestra francese tenta di raggranellare voti superando a destra l’estrema destra: nel 2007 il presidente Nicolas Sarkozy aveva istituito un ministero dell’identità nazionale come contentino per la frangia xenofoba del suo elettorato. Tuttavia lo spericolato sorpasso in curva del giovane ministro del governo Macron va ben oltre il bieco calcolo politico e manifesta qualcosa di più profondo: la sempre più generalizzata insofferenza di una parte dei cittadini francesi nei confronti di un’altra parte, immigrati o figli d’immigrati di religione musulmana.

A rendere più difficile una convivenza già segnata da forti disparità economiche è stata evidentemente l’ondata di terrorismo che ha colpito la Francia dal 2015. Sia Darmanin che Le Pen fanno ben attenzione a distinguere con attenzione tra “islamici” e “islamisti”, intendendo con questo termine sgraziato i fondamentalisti e i potenziali terroristi. Ma la distinzione è speciosa: nel dibattito pubblico francese, la denuncia dell’islamismo serve spesso ad attaccare l’Islam in quanto tale, puntando di fatto alla sharia.

Ai musulmani è beninteso concesso di dedicarsi alla preghiera ma la legge vieta, dal 2011, di indossare il velo in pubblico. Un po’ poco per la patria della tolleranza. Ogni religione è portatrice di una dimensione politica –  un’idea di comunità, di famiglia, persino di economia –  e pretendere di rimuoverne le asperità significa conservarne soltanto un vuoto simulacro. Ma che fare quando questa dimensione politica entra in conflitto con i principi dello stato?

La fragilità di un sistema

La repubblica francese è una divinità gelosa. Caratterizzata da un forte centralismo, per imporsi ha combattuto brutalmente le minoranze regionali e la religione cattolica; animata da un ideale egualitario, ha progressivamente sostituito i legami comunitari col rapporto diretto del cittadino alla legge positiva. Oggi, confrontata a una nuova minoranza sul suo territorio, la identifica come una potenziale minaccia.

È l’intero “sistema operativo” che regola la convivenza sul suolo francese dai tempi della rivoluzione a sembrare desueto di fronte alla società multiculturale. Secondo un sondaggio della fondazione Jaurès, nel 2019 almeno un quarto dei musulmani francesi considerano il rispetto della sharia più importante di quello delle leggi dello stato, numero che supera il 50 per cento per le giovani generazioni.

La parola d’ordine lanciata dal presidente Macron in vari discorsi a partire da settembre 2020 è “separatismo”. Il governo francese intende riconquistare i territori abbandonati, quelle periferie dove la giurisdizione dello stato è soppiantata da micropoteri locali, evidentemente più efficienti nel fornire servizi e sicurezza, nonché riorganizzare il culto musulmano per evitare le influenze dall’estero, il tutto attraverso un progetto di legge “per rinforzare i principi repubblicani” presentato nel dicembre 2020 e approvato questa settimana. Di fronte a Marine Le Pen, il ministro dell’Interno era andato proprio a promuovere il suo libro sull’argomento. «Avrei potuto scriverlo io» è stato il cordiale commento della leader dell’estrema destra francese.

Nel suo striminzito Le séparatisme islamiste. Manifeste pour la laïcité, Darmanin denuncia dunque l’Opa dell’islamismo sull’Islam. Il problema è il ritorno della legge di dio in mezzo agli uomini attraverso la predicazione di imam radicali legati al salafismo o ai Fratelli musulmani. La lotta contro il terrorismo non sarà più soltanto una faccenda di polizia e d’intelligence, ma una vera e propria battaglia culturale per rimettere l’Islam di Francia sui binari della democrazia.

Darmanin mostra come questa battaglia sia coerente con la storia del paese, che fin dai tempi della chiesa gallicana ha continuamente cercato di sussumere la religione alla politica. Quanto alla laicità, “principio eminentemente francese”, essa deve servire da faro nella notte del fondamentalismo.

In pratica, e qui sembra stare la vera differenza con Le Pen, si tratta di sostenere un Islam "repubblicano" contro le sue varianti aggressive: questo significa finanziarlo e riconoscerlo come soggetto politico, in controtendenza con il principio centralista dell'annientamento dei corpi intermedi. Darmanin sembra tuttavia sottovalutare la ragione profonda per cui tanti giovani francesi preferiscono dio alla République: perché questa non ha offerto loro quello che aveva promesso, un'uguaglianza sostanziale e non solo formale. L’integrazione è sempre uno scambio: bisogna assicurarsi che entrambi abbiano qualcosa da dare.

Il ministro non è solo nella sua battaglia. Se Macron indica la direzione, altri membri del governo si sono buttati nella mischia con esiti non sempre felicissimi. Pochi giorni dopo il famigerato dibattito televisivo, la ministra dell'università Frederique Vidal ha denunciato una convergenza ideologica tra ultrasinistra e islamismo, il cosiddetto “islamo-gauchisme”, e annunciato un’indagine sulla sua nefasta influenza sul mondo accademico. Una diagnosi che pare uscita da una lettura un po’ troppo letterale di Sottomissione, il romanzo di Michel Houellebecq che immagina un futuro in cui gli intellettuali parigini si convertono all’Islam per opportunismo.

Non c'è dubbio che gli intellettuali siano spesso opportunisti e che abbiano incessantemente minimizzato i problemi legati all'immigrazione, ma ciò non fa di loro dei teorici della rivoluzione islamica. Il problema della denuncia di Vidal, che ha provocato una comprensibile alzata di scudi dal mondo universitario, è che se esistono correnti che potrebbero vagamente corrispondere alla sua definizione – come i cosiddetti Indigènes de la République, ancorché difficilmente tacciabili di fondamentalismo religioso –  esse restano marginali: la ministra però le associa ad altri fenomeni come gli studi postcoloniali e la diffusione della cancel culture, già evocati da Macron, creando uno spaventoso mischione che parte da fastidiose mode intellettuali, passa dallo studio critico dell’imperialismo e arriva al concorso esterno in attività terroristica. Il risultato è un panico morale che attraversa la Francia, monopolizzando le prime pagine dei giornali di destra e di sinistra.

Incapace di riconoscere la fragilità del suo modello d’integrazione, la République è costretta ad additare freneticamente dei nemici esterni ed interni: l’influenza del multiculturalismo identitario americano, il nichilismo della sinistra, l’espansionismo dell’Islam politico… magari collegandoli tra loro in un unico spauracchio controrivoluzionario e anti-illuminista.

Il New York Times ha titolato, con una punta d'ironia: Will American Ideas Tear France Apart? Some of Its Leaders Think So. La realtà potrebbe essere più semplice ma anche più drammatica; ovvero che, come scrisse Guy Debord nelle sue note sulla “questione degli immigrati” raccolte nel recente Ecologia e psicogeografia (Eleuthera), la società dello spettacolo in decomposizione non riesce più ad assimilare nessuno, men che meno i suoi stessi cittadini, perché ne ha perso i mezzi culturali.

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