La vista è grandiosa, e pure la svista. Google ha occupato quattordici piani, dal 18 al 31, oltre che ventimila metri quadrati, di un futuristico complesso urbano il cui nome è “Warsaw Hub”. Da questo punto di Varsavia, dalle parti di Rondo Daszyńskiego, si vedono grattacieli e si intravedono grandi progetti: Big Tech vuole fare della capitale polacca, e di questo quartier generale nello specifico, il più grande centro di sviluppo della tecnologia cloud in tutta Europa. Questa è la vista.

La svista è quella sovranista: far credere al proprio elettorato di mettere gli interessi nazionali al primo posto, salvo poi favorire multinazionali e corporation straniere. «Ma come, non dovevamo difendere il patriottismo economico?», è arrivato a dire persino un alleato di governo polacco quando è apparso chiaro che il nuovo “ordine polacco” (il “polski ład”) poteva sfavorire le imprese locali. Più Big Tech annuncia investimenti in Polonia, più la doppia faccia appare evidente. Per attirare capitali esteri le leve sono il fisco compiacente e i salari sacrificati, in una società – quella polacca – dove ancora la contrattazione collettiva è cosa rara. Negli stabilimenti Amazon nel paese, di recente, sono morti dei lavoratori. E «in Polonia è facile insabbiare una vicenda del genere», accusano i colleghi.

Big Tech e la presa polacca

Le bandierine di Google in Polonia sono sempre più. Dal primo ufficio, inaugurato nel 2006, a fare di Varsavia la capitale europea del cloud, passano miliardi di differenza. Ne sono serviti quasi due di investimento solo per il progetto di centro cloud simboleggiato da quei quattordici piani con skyline. Negli ultimi tre anni i dipendenti Google al lavoro nella capitale polacca sono triplicati, ora sono 800 di cui 500 nel dipartimento di ingegneria. «Varsavia sarà la capitale cloud d’Europa», annuncia Magdalena Kotlarczyk, a capo della corporation in Polonia. Poi c’è Breslavia, in Slesia, dove pure Google sta ampliando la propria presenza: dalle parti della Silicon Valley non ci si accontenta di presidiare una città sola. Né c’è solo Big G a investire qui. Prima ci aveva già pensato Microsoft, a investire poco meno di un miliardo di euro. Per farlo ha potuto contare sulle «partnership strategiche» con PKO BP, la più grande banca polacca, e il fondo di sviluppo nazionale, il Polski Fundusz Rozwoju; obiettivo dichiarato, esserci e fornire servizi – anche in questo caso cloud – per digitalizzare la pubblica amministrazione e il business del paese. A maggio 2020, giorno dell’annuncio del miliardo di investimenti, e in piena pandemia, solo una impresa polacca su dieci usava la tecnologia cloud, per una media europea di due e mezzo nel 2018. Gli Stati Uniti hanno colto il momento. Perché però puntare tutto proprio sulla Polonia? Certo, il fatto di esser stato l’unico paese a non sprofondare in recessione durante la crisi finanziaria, un Pil che nel secondo trimestre di quest’anno era in salita di quasi l’undici per cento, esercitano, per chi investe, tutto il fascino di una stabilità economica.

Giù la maschera sovranista

Ma c’è altro, e ha a che fare proprio con le scelte fiscali ed economiche di un governo che a suo dire è schiettamente nazionalista. Łukasz Komuda è un economista della Fundację Inicjatyw Społeczno-Ekonomicznych di Varsavia. «Mi chiede qual è la calamita che attrae le multinazionali? Certamente il magnete è il fisco, sono i vantaggi fiscali per queste corporation: gli investitori esteri, quando decidono di metter piede in Polonia, almeno per i primi tempi godono di condizioni estremamente vantaggiose». Komuda spiega che negli ultimi tempi la tattica del governo è stata elevata a strategia: «Prima avevamo solo specifiche regioni del paese, caratterizzate da alta disoccupazione e da lavoratori mediamente qualificati, nelle quali attrarre investimenti da fuori. Adesso il primo ministro Mateusz Morawiecki ha un piano ben più ampio, e cioè creare una sorta di zona economica speciale che copre di fatto tutto il paese». Insomma, non agevolazioni mirate per aiutare aree depresse, ma una zona di comfort per le multinazionali che coincide con la Polonia stessa.

Tassare i piccoli

«Vorremmo ricordarvi che uno dei punti cardinali della nostra coalizione, della Destra Unita, è il patriottismo economico. Invece le soluzioni proposte finora sono chiaramente più vantaggiose per le grandi imprese, la maggior parte delle quali nelle mani di capitali stranieri, piuttosto che per le piccole e medie imprese, e per gli imprenditori polacchi». Con questo j’accuse, comincia la rottura consumatasi in estate tra Jarosław Gowin, che con il suo partito Porozumienie aveva formato l’alleanza di governo trainata dal Pis, e il premier Morawiecki. La battaglia sulle regole fiscali nasce dall’“ordine polacco” (il “polski ład”) imbastito dal governo. Stando alla camera di commercio polacca, e al suo vicepresidente Maciej Ptaszyński, «siccome tocca attività il cui reddito non supera l’1 per cento di fatturato, finisce per colpire soprattutto negozi al dettaglio, distributori e grossisti polacchi ai quali si rivolgono le pmi nostrane». Lewica, la sinistra polacca, accusa il governo di «cedere alle pressioni dei lobbisti: i milionari sono ancora privilegiati, il sistema continuerà a essere iniquo, qui da noi il fisco tratta meglio un banchiere di un infermiere». Che il sistema in Polonia sia iniquo è in generale assodato. «Nel mio paese la disuguaglianza cresce rapidamente, siamo il fanalino di coda d’Europa», dice Komuda, l’economista.

Lavoratori senza protezioni

Oltre al regime fiscale di matrice sovranista c’è poi un altro potentissimo magnete che attrae le grandi imprese da fuori confine, ed è la condizione dei lavoratori, sia per i salari bassi che per il basso livello di sindacalizzazione. Certo, i lavoratori altamente specializzati del quartier generale di Google hanno salari migliori rispetto alla media del paese, ma la Polonia è tra i paesi con i peggiori minimi salariali dell’Ue (circa 600 euro) ed è pure tra quelli dove è più diradata la contrattazione collettiva. Anche perché «la sindacalizzazione stessa è ferma al 12 per cento – i dati li dà Komuda – e le corporation sono impegnate attivamente per evitare che i sindacati si installino e possano giocare un ruolo».

Su questo non risultano battaglie sovraniste del partito di governo, mentre con un silenzio pesante l’esecutivo ha accolto le notizie recenti di lavoratori morti nei magazzini di Amazon. Il 6 settembre è stato trovato morto Dariusz Dziamski, 49 anni. «Non gli facevano neppure riprendere fiato, ci trattano come rifiuti», raccontano i colleghi coperti da anonimato. Stessa sorte era toccata a un collega più giovane in primavera. L’ultimo laconico annuncio di morte risale a pochi giorni fa. «Spiacevole evento casuale», dice l’azienda. Ma non la pensano così i lavoratori. Maria Malinowska, una di loro, dice: «In Polonia è facile nascondere storie come queste sotto il tappeto». Il governo sovranista tace.

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