Nel dizionario tedesco è entrato da qualche anno un nuovo verbo, “merkeln”. Vuol dire “temporeggiare” e si ispira alla pratica politica della cancelliera Angela Merkel. È lei ad aver concepito mercoledì scorso un accordo che ha consentito di disinnescare il veto di Polonia e Ungheria sui fondi europei. Ma a che prezzo? In realtà questo accordo non fa che rinviare i problemi, con Viktor Orbán anzitutto.

Pur non disconoscendo in apparenza l’accordo del 5 novembre tra presidenza tedesca ed europarlamento, che vincola l’erogazione dei fondi Ue al rispetto dello stato di diritto, Berlino, Budapest e Varsavia hanno fatto passare in Consiglio europeo una dichiarazione che di fatto pretende di emendare quel meccanismo. La dichiarazione dei governi chiede alla Commissione di adottare proprie linee guida e di aspettare la sentenza della Corte di giustizia europea: Ungheria e Polonia faranno infatti ricorso e continuano a opporsi al meccanismo. Non a caso pur togliendo il veto sui fondi, in Consiglio hanno votato contro il punto sullo stato di diritto. In pratica i governi chiedono a Bruxelles, che pur dovrebbe essere indipendente da loro, di ritardare e limitare l’applicazione del vincolo. Tutti i compromessi hanno un costo. Quelli che non risolvono le questioni, ma le rinviano (“merkeln”), ne hanno uno più alto.

Il prezzo del compromesso

Al momento il prezzo visibile è quello che, poco dopo l’accordo fra Berlino e Budapest, la casa automobilistica tedesca Daimler ha deciso di investire nel suo stabilimento ungherese di Mercedes-Benz: 100 milioni di euro. Allo stesso tempo il governo ungherese aiuterà l’azienda con abbondanti sussidi statali: 43 milioni. Poi c’è il prezzo politico. Le misure approvate proprio ieri dal parlamento ungherese attestano che Orbán continua a ignorare lo stato di diritto, e che quindi il meccanismo stipulato in origine non ha per ora un potere deterrente. I provvedimenti riducono ancor di più il controllo sull’uso dei soldi pubblici e sono congegnati per ostacolare l’opposizione alle prossime elezioni. In più, nonostante lo scandalo dell’orgia gay che ha travolto il partito di governo Fidesz, attaccano ancora la comunità Lgbt, sul fronte delle adozioni.

Poi ci sono le conseguenze sui fondi europei, e sul futuro dell’Unione. Anche se pochi hanno interesse ad ammetterlo, l’accordo Berlino-Varsavia-Budapest sta scatenando un vero e proprio conflitto fra le istituzioni europee. Uno scontro che potrà concludersi in due modi opposti: o vince la linea dei governi, e allora il meccanismo per lo stato di diritto finisce di fatto congelato, oppure prevale la linea dell’europarlamento. Ma a quel punto il rischio è che Budapest torni a bloccare i fondi ora che i parlamenti nazionali dovranno dare il loro via libera agli aiuti europei.

Scontro istituzionale

Oggi l’europarlamento approva una risoluzione, appoggiata da quattro grandi gruppi (popolare, socialdemocratico, verde e liberale), in cui chiede di fare carta straccia della dichiarazione dei governi. «Anche se il Consiglio presenta la sua dichiarazione come “politica”, in realtà i governi pretendono di sostituirsi al legislatore, emendando il meccanismo dello stato di diritto. In più, chiedono alla Commissione di aspettare la sentenza della Corte di giustizia per metterlo in pratica, e quindi, di fatto, di congelare il meccanismo» dice il giurista Alberto Alemanno. «Peccato che il Consiglio non legiferi e che la Commissione dovrebbe essere indipendente. I governi la scorsa settimana hanno di fatto violato l’equilibrio di poteri, con l’esito paradossale che sullo stato di diritto hanno violato essi stessi lo stato di diritto». Il parlamento Ue afferma quindi che nessuna dichiarazione del Consiglio può alterare quanto già deciso, e che la Commissione, indipendente dai governi ma soggetta al voto di fiducia del parlamento, deve quindi rispettare quanto stabilito dai legislatori. C’è il rischio che a quel punto Orbán blocchi tutto? «Plausibile», dice Alemanno. Se invece, come fa intendere la commissaria Vera Jourova, la Commissione darà retta ai governi, il rischio è che il meccanismo sullo stato di diritto finisca inattuato all’inizio, e attuato parzialmente dopo.

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