La Brexit è un evento senza precedenti nella storia dell’integrazione europea e, allo stesso tempo, ha innescato importanti sfide politiche nel Regno Unito. Mentre l’evento del referendum del giugno 2016 è il momento di solito ritenuto più significativo, nel libro che abbiamo scritto analizziamo le dinamiche processuali e le loro conseguenze sul sistema politico britannico.

Dopo il referendum, in Europa non si è concretizzato un possibile effetto domino (anche in Italia si iniziò a parlare di «Italexit»…). Invece, nel Regno Unito si è aperta una confusa fase nella quale una delle democrazie più antiche, stabili e prevedibili è parsa in preda a tensioni e trasformazioni dall’esito quanto mai incerto. Per comprenderle, nel volume individuiamo tre dimensioni chiave: quella partitico elettorale, quella del rapporto tra governo e parlamento e quella delle relazioni tra Londra e il governo delle periferie devolute.

La dimensione partitico elettorale

Nella prima dimensione spiccano le ben due elezioni anticipate del 2017 e 2019, nelle quali la Brexit ha avuto un peso molto diverso. Nelle prime non era un tema rilevante: entrambi i maggiori partiti avevano concordato di dare avvio ai due anni di negoziati con l’Ue previsti dal Trattato di Lisbona. È invece cruciale nel 2019: il trionfo di Johnson evidenzia la maggior capacità dei conservatori di unire il fronte di coloro che avevano votato per Brexit al referendum, mentre i remainer si dividevano tra laburisti, liberal-democratici, verdi e altri.

Anche il profilo elettorale dei due maggiori partiti è molto cambiato. Grazie alla posizione decisa di Johnson sulla Brexit (e alla sua leadership istrionica), all’impopolarità di Corbyn (percepito come «distante e metropolitano» nei collegi marginali dell’ex “muro rosso” del nord dell’Inghilterra), soprattutto in Inghilterra spicca sempre di più il cleavage urbano-rurale, con piccoli spazi urbani rossi in una marea blu di zone rurali conservatrici. Il risultato elettorale del 2019 è stato il frutto combinato del logoramento del gioco parlamentare, della scommessa di Johnson di portare a casa la Brexit, ma secondo alcuni soprattutto dell’impopolarità di Corbyn, che emergeva da sondaggi post elettorali come la principale ragione di defezione tra coloro che avevano disertato il Labour.

Pur in un contesto di crescente volatilità, dove la capacità predittiva dei sondaggi è in calo, il bipartitismo viene tutelato dalla sopravvivenza del sistema elettorale maggioritario – nella difesa del quale convergono le convenienze dei due maggiori partiti. Ciò rende alquanto improbabile una trasformazione radicale del sistema partitico che, nonostante Brexit, continua ad essere imperniato sulla competizione tra conservatori e laburisti, almeno nel voto per il parlamento di Westminster.

Governo e parlamento

Nella seconda dimensione, gli anni della Brexit sono stati caratterizzati da fortissime tensioni tra esecutivo e parlamento, culminate nella sospensione dei lavori parlamentari nell’agosto 2019. Certamente, l’esito elettorale del 2017, che ha prodotto un governo di minoranza, ha indebolito l’esecutivo. Al tempo stesso, la relazione tra il parlamento e il governo è cambiata nel tempo, e il primo ministro – pur rimanendo al centro del sistema di governo – non è più, citando la famosa espressione di Lord Hailsham, un «dittatore eletto».

Le ricerche più recenti hanno infatti dimostrato come il parlamento sia un attore rilevante nel processo decisionale. Riesce infatti a esercitare una certa influenza “preventiva” sull’agenda e le proposte legislative del governo, che si confronta peraltro con un crescente ribellismo. Infine, non esiste più una stabile maggioranza conservatrice alla Camera dei Lords, rendendo l’esito delle votazioni più incerto.

Su questo quadro in evoluzione, si sono innestati gli anni della Brexit, che hanno visto il parlamento scontrarsi con il governo sulle strategie negoziali, i tempi dell’uscita e, più in generale, la natura stessa della Brexit. Ad esempio, il primo voto sull’accordo di uscita dall’Ue, nel gennaio 2019, ha rappresentato la sconfitta più ampia mai registrata da un governo britannico alla Camera dei Comuni.

Nonostante il governo Johnson disponga di una solida maggioranza alla Camera dei Comuni, e controlli un partito relativamente coeso sulla questione europea, i passaggi parlamentari sulle misure per contrastare la pandemia ed i voti sull’implementazione della Brexit hanno fatto emergere un’opposizione interna che persino Johnson non può ignorare. Così, se il processo della Brexit ha riaffermato il ruolo del governo nel sistema politico britannico, ha contemporaneamente evidenziato i contrappesi – politici ed istituzionali – ora esistenti.

Londra e il resto del paese

Infine, ma certo non da ultimo, la Brexit ha avuto importanti conseguenze sul rapporto tra stato centrale e le amministrazioni devolute. Le ripercussioni più dirette vanno tutte nella direzione di un considerevole aumento delle tensioni preesistenti. Si sono avuti due scontri giuridico-istituzionali tra organi centrali e regioni devolute davanti alla Corte Suprema. In entrambi i casi, la natura unitaria dello stato britannico ne è uscita riaffermata e rafforzata, nonostante i negoziati tra Regno Unito ed Ue abbiano sancito l’eccezionalità della posizione nordirlandese – vincolata a precedenti trattati internazionali – rispetto a quella di Galles e Scozia. La Brexit ha anche fornito ai conservatori di Johnson un’occasione per imprimere una dinamica ricentralizzante, che mira a congelare il processo della devolution. Queste dinamiche hanno rinvigorito le preesistenti spinte separatiste, soprattutto in Scozia ed Irlanda del Nord, che avevano votato per rimanere nella Ue nel referendum del 2016.

Questo testo è un estratto dal libro Il Regno Unito alla prova della Brexit, edito da Il Mulino.

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