«Dobbiamo aiutare gli afghani in Afghanistan»: sono parole pronunciate ieri dalla commissaria Ue agli Affari interni, Ylva Johansson. La crisi afghana è la dimostrazione puntuale, se mai ancora ne servisse una, che la esternalizzazione dei rifugiati e i respingimenti illegali, il modello Turchia e lo scandalo Frontex, non sono deviazioni episodiche sulla rotta di un’Europa accogliente. I governi europei, e la Commissione al traino, sono determinati a non accogliere, a respingere, e a scaricare soldi e profughi a regimi come quello di Erdogan, a Pakistan e Iran, pur di evitare quello che per le capitali è visto come un terribile scenario: farsi carico degli afghani in fuga. L’incontro dei ministri dell’Interno dell’Ue tenutosi ieri rafforza la linea dei muri e dell’Europa fortezza. Rientra in un quadro coerente di una politica che vede i migranti come nemici da tenere alla larga.

Eppure questa non è la linea dell’Europa in generale: l’Europarlamento per esempio insiste per trovare percorsi di accoglienza. Le alternative alla linea dura esistono. Peccato che i governi, e Bruxelles al seguito, facciano finta di non saperlo.

Le capitali e la linea dura

Stando ai ministri, «abbiamo imparato la lezione: prevenire flussi migratori su larga scala». L’Ue e i suoi stati membri «con il supporto di Frontex sono determinati a proteggere le frontiere esterne e prevenire gli ingressi non autorizzati». Questo dice la dichiarazione congiunta di ieri: che bisogna proteggersi dal pericolo migratorio, serrare i confini. Una linea securitaria che si accompagna a un piano di esternalizzazione dei rifugiati a paesi extra Ue (come Turchia, Pakistan e Iran); «l’Ue rafforzerà il suo supporto ai paesi terzi, dell’area e di transito, che si fanno carico di accogliere ampi numeri di migranti e rifugiati».

Niente ricollocamenti? «Su base volontaria, dando priorità ai più vulnerabili». A inizio settembre anche i ministri della Difesa e degli Esteri si incontreranno per discutere la crisi afghana. Mentre i governi pensano a indurire le frontiere, qualcuno che lavora per aprire le porte ai rifugiati c’è: gli eurodeputati.

Gli eletti Ue e l’alternativa

I gruppi socialdemocratico, liberale, la sinistra e i verdi chiedono in coro che l’Europa mostri solidarietà e accolga i rifugiati afghani. Gli eletti europei voteranno una risoluzione sul tema proprio nella plenaria di settembre. L’alto rappresentante Josep Borrell ha ventilato ai capigruppo la possibilità di attivare la direttiva sulla protezione temporanea. In molti, sul fronte pro accoglienza, dalle ong allo stesso commissario Ue Paolo Gentiloni, che da subito ha insistito anche sui corridoi umanitari, stanno sollecitando l’applicazione di questa direttiva del 2001. Come mai, se la direttiva c’è già, non è stata attuata? Lo strumento c’è, è la volontà politica di governi e Bruxelles che latita. Cosa dice la direttiva 2001/55/EC? La sua specificità sta nel fatto che assegna protezione immediata, anche se temporanea, a interi gruppi, «che arrivano da uno specifico paese o area geografica, sia che l’arrivo avvenga spontaneamente che tramite un programma di evacuazione». La protezione di gruppo scatta in situazioni di crisi, di «flusso massiccio» di persone che scappano da una situazione di grave pericolo. La direttiva offre uno strumento flessibile per gestire a livello europeo una accoglienza immediata. Perché venga attivata bisogna che la Commissione lo proponga, dopodiché basta che in Consiglio, cioè tra i governi, una maggioranza qualificata sia d’accordo; non serve l’unanimità.

Strumenti inapplicati

«La crisi afghana sarebbe l’occasione per usare la direttiva, finalmente, dopo vent’anni», dice Emilio De Capitani, visiting professor alla Queen Mary University di Londra. Lui, quando è nata, era segretario della commissione Libertà civili (Libe) dell’Europarlamento: quella direttiva l’ha vista nascere, e pure rimanere nel cassetto. Perché? Con la crisi jugoslava e l’esodo dal Kosovo, i paesi che ventilavano gli arrivi, «come Austria e Italia, concordarono, pur in modo sofferto, la direttiva». Non è stata applicata «per questioni di volontà politica, soprattutto delle istituzioni», dice De Capitani. «Una prova l’abbiamo avuta nel 2010, quando con le primavere arabe l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni la invocò per gli arrivi dalla Tunisia. La commissaria Ue agli affari interni dell’epoca, Cecilia Malmström, obiettò che l’afflusso di migranti era gestibile», non di massa, tale da richiedere lo strumento. Ma al di là della direttiva, sulla carta sarebbero ormai i trattati stessi a garantire accoglienza. Il trattato di Lisbona in vigore dal 2009 «all’articolo 78 paragrafo 3 prevede l’adozione di misure di emergenza», ricorda De Capitani: «La base giuridica per una politica di accoglienza l’Ue ce l’ha già». Sta anzi nelle sue fondamenta, giuridiche almeno. Eppure finora «l’unico ad avere un po’ di coraggio è stato Jean-Claude Juncker, durante la crisi siriana: quando era presidente della Commissione, impose quote obbligatorie. Provocò l’irritazione di molti governi». Che infatti quelle quote, e i ricollocamenti, li hanno lasciati per lo più sulla carta.

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