Tutti uniti sul riarmo, anzi su “ReArm”: nessun leader europeo ha osato contestare nella sostanza il piano della Commissione per far lievitare le spese sulla difesa; sulla direzione da intraprendere, invece, regna l’ambiguità strategica. Fa clamore il cambio di posizione di Merz (e di Lagarde) sul debito. Berlino pensa a trasformare l’automotive in “tankmotive”
Tutti uniti sul riarmo, anzi su “ReArm”: nessun leader europeo, al Consiglio straordinario di questo giovedì su Ucraina e sicurezza, ha osato contestare nella sostanza il piano della Commissione europea per far lievitare le spese sulla difesa; sulla direzione da intraprendere, invece, regna l’ambiguità strategica tra chi spinge per restare affiancati agli Usa (il premier polacco ad esempio) e chi pensa a tanti aumenti nazionali invece che a una regia comune (in tanti).
Il momento spartiacque
«Il nuovo programma per incrementare la sicurezza europea è una grande decisione», ha detto Volodymyr Zelensky a pranzo coi leader. I capi di stato e di governo europei hanno ribadito formalmente il sostegno a Kiev e fatto intendere di essere pronti a sostituire, per quanto possono, gli Stati Uniti che si disimpegnano in Ucraina. Alcuni lo hanno fatto più di altri: dal governo tedesco sono arrivate dichiarazioni di impegno concreto, mentre sul versante opposto si sono registrate le solite rimostranze di Viktor Orbán, dissociatosi dalle conclusioni; il suo sodale, il premier slovacco Robert Fico, è stato corteggiato con concessioni di Bruxelles sul transito del gas. L’impegno assunto dai leader europei sul versante ucraino rappresenta solo una costola della discussione.
Sfilando al fianco del presidente ucraino e del presidente del Consiglio europeo, sulla passerella della famosa “lanterna” di rue de la Loi, Ursula von der Leyen – che già aveva invitato a entrare in modalità emergenziale e a «cogliere le opportunità del momento» –stavolta ha messo a battesimo il «watershed moment»: «Ci troviamo in un momento spartiacque per l’Europa».
Per quanto la trasformazione dell’Ue in direzione di una rimilitarizzazione sia in corso in realtà da anni, la presidente della Commissione Ue sta restituendo un dato di realtà: il Consiglio straordinario che si è svolto questo giovedì non è servito soltanto ad aggiornarsi e a posizionarsi sugli sviluppi per l’Ucraina. L’incontro tra i leader offre anche una necessaria chiarificazione su che cosa viene davvero discusso al di là delle sorti di Kiev: una vera e propria riconversione industriale ed economica del continente verso il settore militare.
«L’Europa deve intraprendere la corsa agli armamenti e vincerla contro la Russia», ha dichiarato Donald Tusk, che si ostina però a voler fare quella corsa al fianco dell’altro Donald, cioè Trump, nonostante sia difficile distinguere le azioni di quest’ultimo dalle convenienze di Putin. Le distanze strategiche tra i leader sulla direzione da intraprendere restano tutte: chi reclama la partnership con gli Usa, a cominciare dalla Polonia grande acquirente di armi americane; chi vuole più spese ma senza vocazione comune, con Orbán pronto a dichiararlo platealmente.
C’è chi – Italia compresa – tenta almeno di salvare le apparenze, e va cauto sull’uso dei fondi di coesione per il settore militare. Ma c’è un sostanziale allineamento dei leader europei sull’imperativo della spesa. Neppure l’ultimo socialista di spicco al governo – lo spagnolo Pedro Sánchez – osa obiettare; semmai chiede di pensare «alla sicurezza ad ampio raggio, anche per il versante sud»; un altro modo per dire che la trattativa è in corso sul “rafforzamento delle frontiere meridionali”, come pare chieda anche l’Italia.
La riconversione
«Spendere, spendere!», dice la premier danese, che già più di un anno fa rilasciava interviste in cui si diceva pronta a sacrificare il welfare per il warfare. I segnali più potenti di una vera e propria riconversione economica arrivano anzitutto da Berlino, la capitale che finora aveva frenato in direzione rigorista anche la riforma del patto di stabilità, azzoppandone la portata, e che adesso invece intona inni al debito e quindi non può chiudere del tutto la porta al dialogo.
Da quando il cristianodemocratico Friedrich Merz ha invocato il bazooka per difesa e infrastrutture, von der Leyen che segue Berlino può con sollievo parlare di deroghe al patto di stabilità; ma frena gli entusiasmi di chi, come l’Italia, da sempre chiede più elasticità, e ora domanda perché non una revisione più ampia oltre alla difesa. All’epoca della riforma del patto era stata anzitutto la Germania ad affossare le ambizioni.
Ma le prese di posizione cambiano: a Berlino si discute persino dell’eventualità di tamponare la crisi del settore automobilistico convertendo gli impianti per la produzione militare, dall’automotive al tankmotive. Non ci sono più tabù, gli analisti lo dichiarano pure al FT: «La sovrapproduzione nel settore auto può essere usata per produrre veicoli militari». L’aumento della spesa per difesa e infrastrutture «può contribuire alla crescita», ha detto nelle ore del vertice la presidente della Bce; e dire che Christine Lagarde, proprio come Merz, ha alle spalle un lungo curriculum da “falco”.
La Francia è stata già preparata da tempo da Macron alla «economia di guerra», e sempre da tempo il presidente sta negoziando coi cristianodemocratici l’estensione dell’ombrello nucleare francese ad altri paesi europei, con l'argomento rinnovato che sugli Usa non si può contare. Non tutti i governi la pensano così, e in ogni caso la Francia vuol mantenere per sé la regia, che sarebbe francese, non europea; il che fa riflettere, anche perché non è da escludere che il prossimo presidente si chiami Le Pen.
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