Il valore della direttiva sul salario minimo europeo non sta nell’imposizione di un obbligo all’Italia. Come lo stesso commissario europeo al lavoro Nicolas Schmit riconosce, «non obbligheremo l’Italia ad adottare il salario minimo», anche perché l’Ue per trattato non può scavalcare i governi nella definizione delle retribuzioni. Ma «diamo un contributo al dibattito e sono fiducioso che si troverà un buon accordo tra governo e parti sociali», conclude Schmit. 

È anzitutto politica, infatti, la svolta che arriva da Bruxelles, con questo accordo raggiunto prima dell’alba di martedì da Commissione, Europarlamento e Consiglio. 

Nonostante i tentativi dei governi di annacquare la direttiva, il progetto mantiene la sua stoffa.

Il segretario della confederazione dei sindacati europei, Luca Visentini, dice che «di più non si poteva fare: è stato raggiunto un buon compromesso, e c’è stata una guerra pazzesca per arrivarci». L’Unione europea prova a cambiare faccia davanti ai cittadini: come notano i socialdemocratici, «l’atteggiamento è opposto rispetto ai tempi di Barroso e della crisi finanziaria, quando la Commissione chiedeva di tagliare gli stipendi». 

L’aspettativa è che con questa direttiva nel corso del tempo 25 milioni di lavoratori vedano il proprio stipendio impennarsi del venti per cento, e che il tasso di povertà lavorativa cali del dieci per cento. Sulla carta, è previsto un aumento dei salari minimi in due terzi degli stati membri.

«L’Ue, che finora si è fatta conoscere per la logica di mercato e per aver spinto la libera concorrenza, finalmente interviene per favorire il dialogo sociale», dice l’eurodeputato verde Mounir Satouri. 

La direttiva e il salario

Una direttiva obbliga gli stati membri a prendere misure per raggiungere alcuni obiettivi. Quelli definiti nella “direttiva per salari minimi adeguati nell’Ue” riguardano sia la retribuzione che la contrattazione collettiva. 

Bruxelles non impone di adottare il salario minimo, ma dice che i paesi che vi ricorrono devono anche assicurarsi che risponda ad alcuni criteri, ad esempio tenere in considerazione il costo della vita.

Nell’Ue, ben 21 stati membri hanno il salario minimo. Non significa che non ci siano sperequazioni, i cui effetti negativi coinvolgono tutti gli europei: sia chi soffre salari bassi, sia chi subisce il dumping sociale.

Ecco perché un intervento europeo, anche quando non ha un impatto diretto su un paese, come l’Italia, determina comunque un effetto indiretto per tutti. 

La cifra mensile in Bulgaria è di 332 euro, in Lussemburgo di 2257: i dati sono Eurostat, riferiti all’inizio del 2022, e questi due paesi rappresentano i poli opposti. Se si considerano i dati sul salario minimo, l’Europa appare divisa in tre gruppi.

Ci sono i paesi con salario minimo sotto i mille euro, come la Polonia, l’Ungheria, la Croazia, la Grecia, il Portogallo; una “retrovia delle retribuzioni” che si allarga a est e a sud. La cerchia intermedia, tra i mille e 1500 euro, comprende Spagna e Slovenia.

Poi ci sono i paesi che superano questa soglia, come Francia e Germania.

L’ingresso di Olaf Scholz, che ha fatto dell’innalzamento del salario minimo a 12 euro orari uno dei punti forti di campagna, nel consesso europeo, ha contribuito non poco a sbloccare politicamente il percorso della direttiva.

Tra i parametri indicati dall’Ue, c’è il 60 per cento del salario mediano lordo e il 50 di quello medio. 

Il ruolo dei sindacati

Il testo non riguarda solo il salario minimo, ma anche la contrattazione collettiva: la direttiva prevede che i paesi nei quali non raggiunge un livello adeguato, e cioè l’80 per cento, debbano prevedere un quadro per avviarla e istituire un piano di azione per promuoverla.

L’Italia è già attorno all’85 per cento. La diffusione o meno della contrattazione collettiva ha un peso notevole, non a caso è assai ridotta nei nove paesi coi minimi salariali peggiori, dove solo tra il 7 e il 30 per cento di lavoratori beneficia di livelli salariali negoziati dai sindacati.

Nei sette paesi coi salari più alti, la contrattazione collettiva copre il 70 per cento dei lavoratori.

Svezia e Danimarca, che avevano frenato la direttiva perché rivendicavano la peculiarità positiva del loro sistema di contrattazione, con un ruolo forte dei sindacati, con l’accordo sono state rassicurate sul fatto che la direttiva servirà a migliorare la situazione, non a spingere al ribasso.

Luca Visentini, il segretario del sindacato europeo, spiega che uno degli aspetti positivi raggiunti nell’accordo è il fatto che «sia stato definito il concetto di contrattazione collettiva: inizialmente erano evocate generiche organizzazioni di lavoratori, non erano citati esplicitamente i sindacati, nella versione finale invece sì». Un passo di inedita chiarezza, da parte di Bruxelles.

 Per Visentini, «il cuore della direttiva sta proprio nel fatto che consente di estendere e rafforzare la contrattazione collettiva, compresa la lotta a trattamenti antisindacali».

L’obbligo di applicare contratti collettivi diventa dirimente, grazie alla direttiva, anche nella assegnazione di appalti pubblici: Bruxelles dice no a corse al ribasso dei prezzi sulla pelle dei lavoratori. Charito cosa farà Bruxelles, cosa resta da fare a Roma? 

«C’è una porzione di contratti spuri, precari, ai quali non si applicano i contratti collettivi, e inoltre ci sono contratti pirata», dice Visentini. 

«Quello che bisognerebbe fare è applicare fino in fondo la costituzione, per estendere erga omnes la copertura dei contratti conclusi dalle organizzazioni rappresentative.

La Finlandia lo ha fatto, coprendo così anche i precari, e i salari sono cresciuti». Più che una direttiva nuova, dice Visentini, basterebbe rileggere la cara vecchia costituzione. 

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