Viktor Orbán ha fatto della sfrontatezza un’arma negoziale. Mentre Bruxelles e i governi europei decidono se continuare a drenare fondi all’Ungheria o far valere le ragioni dello stato di diritto, e in quale proporzione, intanto il despota amico della destra italiana fa licenziare altri insegnanti, colpevoli di scioperare per paghe degne. Tiene in ostaggio la tassazione delle multinazionali, gli aiuti a Kiev, le nuove adesioni alla Nato. Provoca, ricatta, e spera di cavarsela come ha fatto finora: i veti in pubblico, e in privato gli incontri con gli imprenditori tedeschi, come quello di ottobre a Berlino.

Se l’avrà ancora vinta, saranno i governi europei – compreso il nostro – a deciderlo. E se dipendesse da Giorgia Meloni, «congelare i fondi all’Ungheria sarebbe una barbarie», per dirla con uno dei suoi luogotenenti europei, l’eurodeputato Nicola Procaccini, che si scaglia contro Bruxelles. L’alleanza tra le destre ungherese, polacca e italiana si rinsalda dietro all’imperativo di spalleggiarsi a vicenda sulla rule of law; «Prima o poi useranno questo argomento anche contro l’Italia», preconizza Procaccini.

I tempi intanto maturano: le crepe nella democrazia ungherese sono più profonde, le derive filorusse orbaniane pure, e in parallelo cresce la mobilitazione di società civile ed europarlamentari. Scendere a compromessi con Orbán, come ha fatto Ursula von der Leyen per tutta l’èra Merkel e anche dopo, sta diventando troppo imbarazzante persino per lei, che col suo via libera al Recovery polacco ha scatenato le furie dell’Europarlamento.

Così questo mercoledì la Commissione europea ha presentato in conferenza stampa il suo pacchetto di alibi, per mostrare che con Orbán non è del tutto supina. Propone di congelare una parte dei fondi all’Ungheria, anche se va detto che potrebbe bloccarne molti di più; e sciorina le ventisette «super milestones», cioè le condizioni da rispettare per avere anche solo un euro dei fondi per la ripresa, anche se al contempo dà il suo via libera al Pnrr ungherese. Senza un ok entro fine anno, i fondi non sarebbero stati solo congelati, sarebbero proprio saltati.

Entrambi i passaggi – congelare 7,5 miliardi e approvare il Recovery con una sfilza di precondizioni – dovranno essere avallati dal Consiglio, cioè dai governi.

La tattica di Bruxelles

Per far rispettare lo stato di diritto, l’Ue per ora non sta esercitando alcuna strada efficace se non qualche leva finanziaria. È almeno dal «report Sargentini» del 2018 che la «grave violazione» dei valori dell’Unione è attestata; ma aspettando che la procedura dell’articolo 7 andasse a segno, e che i governi agissero, le derive autocratiche ungheresi sono aumentate.

Esistono ora due leve, che con ritardo e a fatica la Commissione Ue sta utilizzando. Una è il meccanismo entrato in vigore durante la pandemia, che condiziona l’erogazione dei fondi Ue al rispetto dello stato di diritto, secondo una bussola di natura finanziaria: i soldi dei contribuenti europei vanno solo dove gli investimenti sono tutelati. Von der Leyen ha rispettato l’accordo stretto da Angela Merkel coi premier polacco e ungherese anche quando Merkel non era più al potere, e ha aspettato le elezioni ungheresi del 3 aprile prima di considerare questo meccanismo. Si è mossa il 5 aprile.

Poi in autunno la Commissione ha concordato col governo ungherese un pacchetto di riforme, cosmetiche e di dubbia efficacia. Per poi constatare – ora ufficialmente – che quanto fatto dall’Ungheria non basta. Così questo mercoledì Bruxelles ha formalizzato la decisione di tenere congelata una fetta di fondi, per il valore di 7,5 miliardi.

«È una mossa storica: è la prima volta che l’Ue congela i soldi a uno stato», dice l’eurodeputato verde Daniel Freund, gran fustigatore di Orbán. «Ma Bruxelles avrebbe potuto bloccarne molti di più». I commissari si sono focalizzati su uno spicchio dei fondi di coesione, lasciando intonsi finanziamenti come quelli all’agricoltura che foraggiano in modo opaco il cerchio magico orbaniano. «Il meccanismo andrebbe applicato a tutti i fondi», nota Kim Scheppele dell’università di Princeton.

Meloni e i governi

Perché lo stop ai 7,5 miliardi vada in porto, servirà una maggioranza qualificata in Consiglio: 15 governi devono essere d’accordo. «Olanda, paesi baltici e altri sembrano determinati, ma cosa farà Meloni?», dice Freund.

La scorsa settimana, nel voto dell’Europarlamento sul congelamento dei fondi all’Ungheria, la destra italiana (la Lega con Id, FdI col Pis polacco e il gruppo Ecr) si è schierata con Orbán. Una conferma ulteriore arriva da Procaccini, che in Ue ha un ruolo ancor più di spicco da quando Fitto ha lasciato Strasburgo. «Congelare i fondi all’Ungheria è una barbarie»: per Procaccini, le mosse della Commissione sullo stato di diritto sono «politicamente orientate».

Il consenso dei governi servirà anche per far passare l’ok “condizionato” al Pnrr polacco. Lo studioso ungherese Daniel Hegedus spiega che «il modo in cui la presidenza ceca calendarizzerà i voti è cruciale: uno schema può essere vedere come l’Ungheria vota su tassa globale e aiuti a Kiev, per poi orientare il voto sulla sospensione dei 7,5 miliardi, e tenere l’ok al recovery in conclusione».

Se Budapest blocca i provvedimenti, «il fronte dei difensori dello stato di diritto sarà più ampio e agguerrito».

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