La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha affermato che presto tornerà a studiare i libri di storia sugli eventi della Seconda guerra mondiale. Il motivo? Un problema di prospettive, perché quando lo ha fatto, molti anni or sono, sui banchi da giovane liceale nelle scuole della Ddr, lei ha studiato la storia vista dalla parte della Germania dell’est, che si considerava potenza vincitrice con l’Unione sovietica dell’ultimo conflitto. Merkel non ha mai letto la storia contemporanea dalla parte dei vinti, della Germania nazista.

Eppure a Berlino, dove ha vissuto ai tempi della Ddr e in seguito da leader della Cdu e poi alla cancelleria che ha tenuto per sedici anni a partire dal 2005, poteva vedere il Bundestag poco distante, con le frasi incise sui muri nel 1945 dai soldati russi ancora perfettamente conservate a futura memoria. A pochi minuti di distanza ci sono le tre ambasciate più vicine al centro di potere tedesco nazista: nell’ordine la sede diplomatica italiana, quella nipponica e quella turca.

Così aveva deciso l’architetto del regime nazista, Albert Speer, per rendere evidente chi fossero gli alleati più importanti del Terzo Reich. Le tre sedi diplomatiche sono ancora oggi nello stesso posto, dopo la fine del Patto di acciaio e della caduta del Muro di Berlino. Gli effetti di lunga durata della storia, avrebbe detto lo storico francese Fernand Braudel, sono davanti ai nostri occhi, basta saperli leggere.

L’ammissione di Merkel sul bisogno di rituffarsi nei libri di storia è significativa perché spiega molto sui motivi, inconsci e non, per conciliare le esigenze dell’interesse nazionale tedesco con quello più vasto europeo. Una impostazione che potremmo definire “prussiana”, che ha radici proprio nella sua permanenza nella Germania orientale, l’area geografica più vicina alla Prussia di Federico il Grande, l’artefice della tardiva unificazione tedesca.

Uno spunto di riflessione in rapporto con l’Italia: se nel Belpaese la Lombardia, i ducati emiliani e il Granducato di Toscana si unirono al Piemonte di Cavour e al progetto di unità nazionale con una libera adesione, in Germania l’unificazione fu fatta con le baionette prussiane.

Le due Germanie

Quando Napoleone entrò in Alsazia per la prima volta gli abitanti di lingua tedesca gli consegnarono le chiavi delle città perché in lui vedevano sia la modernità della borghesia trionfante sulle ali della Rivoluzione francese sia l’erede del Sacro romano impero di Carlo Magno che aveva eletto Aquisgrana, città tedesca, come capitale del suo regno europeo.

Carlo Magno aveva ricevuto l’incoronazione a Roma e Napoleone ne aveva seguito le orme: a Roma risiedeva il potere religioso e suo figlio divenne re d’Italia; e ovviamente a Parigi risiedeva il potere civile del nuovo impero europeo a trazione francese.

Poi Napoleone, al culmine del suo potere, tentò di soggiogare l’ultimo baluardo continentale al suo dominio, la Russia dello Zar. Ma i russi, con il sostegno dei prussiani (basta aver letto Guerra e pace per capire come andarono le vicende), lo sconfissero grazie al “generale Inverno”.

La Prussia a quel punto si erge a vincitrice nel Congresso di Vienna e a nume tutelare dei popoli di lingua tedesca proprio nella sua opposizione alla creazione di un Sacro romano impero. Gli Asburgo, e basta andare all’Hofburg a Vienna per capirlo, si ritenevano anch’essi gli eredi del Sacro romano impero; il conflitto tra gli Asburgo e la Prussia era inevitabile e infatti deflagrò nel 1866 con la disfatta austriaca.

Helmut Kohl, l’europeo

Helmut Kohl, l’ex cancelliere democristiano al potere in Germania per sedici anni e che scoprì la giovane Merkel e ne fu il mentore politico, se ne allontanò in modo rancoroso e amareggiato proprio sulla gestione delle vicende europee da parte della cancelliera dell’est. E non poteva essere diversamente.

Kohl, nato a Ludwigshafen, il porto sul Reno del Palatinato, l’area dove gli imperatori romani avevano posto la sede imperiale in Germania e i cui principi erano tra i più importanti del Sacro romano impero e dove ancora oggi si parla il tedesco palatino, accusava Merkel di aver abbandonato il suo disegno di creare una Germania europea, non un’Europa tedesca, e di non saper mettere un obiettivo ambizioso europeo nella sua agenda troppo prudente.

Lui che aveva visto la sua città rasa al suolo da 121 raid aerei inglesi, e che aveva giurato nel 1984 a Verdun con il presidente francese Mitterrand che non ci sarebbero stati mai più conflitti tra europei, in sedici anni di cancellierato aveva unificato le due Germanie e aveva rinunciato al Marco, simbolo della sovranità monetaria.

Ma Merkel, protestante, non poteva capire fino in fondo la storia complessa della Germania latina, a maggioranza cattolica, che riscopriva la sua via verso l’unificazione europea valorizzando le antiche radici renane e le sue cattedrali medievali.

Merkel aveva in mente il monaco agostiniano Martin Lutero che nel 1517, con la pubblicazione delle 95 tesi affisse sul portone della Cattedrale di Wittenberg aveva sfidato ancora una volta, come ha scritto Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano, l’erede in altre forme del potere imperiale di Roma, la chiesa cattolica.

Il papa chiese di ritrattare a difesa anche del principio del libero arbitrio, ma Lutero, sostenuto dai nobili tedeschi che volevano rendersi autonomi dal controllo romano e impossessarsi del patrimonio ecclesiastico, non accettò compromessi teologici sulle indulgenze e preferì spaccare la Chiesa. Una ferita aperta ancora oggi.

Il protestantesimo coltivò nel suo interno la tesi della predestinazione che nella sua forma più estrema, quella di Calvino nella puritana Ginevra, rende i predestinati coloro che riescono a dimostrare la predilezione nel fatto di aver successo su questa terra. Tesi che rafforzò il capitalismo (come scrisse Max Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo) e l’accumulazione dei beni visti come manifestazione terrena della grazia divina; al contrario, il perdente e il debitore, persona o stato che sia, è una sorta di reietto della storia che deve pagare per il suo peccato.

Una impostazione ideologica e filosofica che peserà come un macigno nella risoluzione tardiva della partita dei debiti sovrani di Grecia, Irlanda, Portogallo, Cipro e Spagna, tutti paesi a maggioranza di fede religiosa ortodossa o cattolica contro cui la protestante Merkel agì con poca lungimiranza e molta austerità.

La paura di Weimar

Vero è che nel contempo, a riprova della complessità del personaggio Merkel, quando la Bild, il tabloid più venduto in Germania, il 12 settembre 2019 ha paragonato il presidente della Bce, Mario Draghi, a un vampiro che succhia il sangue dei semplici risparmiatori tedeschi per salvare le cicale del sud, Merkel lo ha appoggiato e sostenuto in un costante e delicato gioco di equilibri tra paure e riluttanze tedesche. E tra le maggiori paure (o fobie) sociali della Germania c’è quella dell’iperinflazione della Repubblica di Weimar.

Anche in questo caso la prospettiva tedesca riflette una lettura particolare della storia del Ventesimo secolo. L’iperinflazione del 1923 è, secondo la storiografia tedesca più accreditata, la causa principale della depressione economica che a sua volta portò i nazisti al potere nel 1933.

Merkel in questo caso ha saputo placare le ansie esagerate dei tedeschi sull’inflazione evitando di legare le mani alla Bce di Mario Draghi e di lasciarlo libero di varare politiche monetarie non ortodosse che hanno portato a tassi negativi sui Bund con grave disappunto dei risparmiatori e delle assicurazioni tedesche.

La Ostpolitik merkeliana

Merkel guardava con maggior attenzione a est. Parlava russo, appreso sui banchi di scuola dell’ex Ddr, nei vertici con Vladimir Putin (avvenne anche in un incontro a Milano dove l’allora premier Matteo Renzi se ne lamentò pubblicamente) e progettava il raddoppio del gasdotto North Stream a dispetto degli allarmi americani che ne vedevano una dipendenza energetica pericolosa, come le cronache attuali hanno ampiamente dimostrato.

Il patto economico con il gigante russo era semplice: la Russia forniva le materie prime, la Germania le trasformava con le sue poderose ed efficienti manifatture. Le sanzioni alla Russia per l’annessione della Crimea non ha cambiato questo schema che è stato poi applicato e replicato anche alla Cina di Xi Jinping.

A dicembre 2020, alla fine del semestre di presidenza tedesca della Ue, Merkel forza in tutta fretta i partner Ue a siglare un accordo commerciale e sugli investimenti con Pechino, dimenticando gli accorati appelli di Washington agli alleati europei a sviluppare un approccio comune verso il Dragone cinese. La mossa si trasforma in un clamoroso punto a favore di Xi Jinping. L’accordo oggi è fermo al parlamento europeo per le molte voci contrarie levatesi in una fase in cui Pechino è sempre più aggressiva dal punto di vista economico e militare.

La vicenda è sintomatica di un atteggiamento a dir poco disinvolto di Berlino nel mettere gli interessi commerciali nazionali davanti ai diritti umani e agli interessi europei. Tanto che alcuni analisti, con un gioco di parole, parlano di Merkantilismo. Ma c’è dell’altro.

Come ha scritto l’ex editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau il 4 ottobre scorso su Eurointelligence, «il grande problema per la prossima generazione di leader tedeschi non sarà più la macroeconomia o l’integrazione europea, ma il declino tecnologico tedesco». Un altro pesante lascito della politica prudente e cauta della Merkel ai suoi successori: conti pubblici in ordine ma infrastrutture vetuste e gravi ritardi accumulati in settori chiave per lo sviluppo futuro del paese.

La visita privata al papa

Il papa riceverà in udienza Angela Merkel giovedì 7 ottobre, cancelliera della Germania. Il faccia a faccia, informa il Vaticano, è previsto alle 11. La cancelliera sarà anche al Colosseo alla preghiera per la pace con papa Francesco, nell’ambito dell’incontro internazionale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio “Popoli fratelli, terra futura. Religioni e culture in dialogo”.

All’evento – a cui è stato invitato anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi – il pontefice presenzierà la preghiera ecumenica dei cristiani, prima di unirsi ai leader delle altre religioni mondiali. Non è escluso che Draghi parli di Libia con Merkel.

La cancelliera tedesca uscente a Roma è uno degli eventi chiave della settimana. Arriva dal Castello di Brdo, in Slovenia, dove si è tenuto il consiglio europeo informale: è la prima occasione in cui i capi di stato e di governo dei 27 hanno fatto il punto sullo stato dell’Unione nel mondo, non solo i rapporti con la Cina ma anche le relazioni con gli Stati Uniti, alla luce del ritiro dall’Afghanistan e, soprattutto, in seguito al patto anti Cina con Australia e Gran Bretagna; e inevitabilmente i leader si sono confrontati sull’aumento dei prezzi dell’energia. Il summit è stato seguito dal vertice Ue-Balcani, dedicato al tema dell’allargamento dell’Unione.

Cdu nella tempesta

Molti analisti accusano Merkel di non aver lavorato abbastanza per trovare un suo successore politico. La cancelliera lascia il partito popolare tedesco in una situazione a dir poco caotica e di confusione geostrategica. Nessuno può negare che in campagna elettorale l’Unione cristiano democratica (Cdu) abbia commesso degli errori: ora si tratta di preparare il futuro: andare avanti così non è una possibilità. Lo ha dichiarato il vicepresidente della Cdu e ministro della Salute uscente, Jens Spahn, in un’intervista al settimanale Welt am Sonntag.

Spahn, brillante politico, è uno dei leader più in vista della Cdu e per un certo periodo è stato sostenuto nella sua ascesa dalla stessa Merkel. Successivamente i rapporti fra i due politici si sono raffreddati.

Intanto, secondo la stampa tedesca, le pressioni sul candidato cancelliere della Cdu, Armin Laschet, stanno aumentando affinché il leader del partito venga sostituito in caso del probabile fallimento nella formazione di una coalizione di governo con Verdi e Partito liberal democratico (Fdp). Il sostituto più probabile, che dovrebbe essere nominato da un congresso straordinario della Cdu, sembrerebbe essere Friedrich Merz.

Secondo Spahn, indipendentemente dall’esito dei colloqui con Verdi e Fdp, deve essere chiaro che avanti cosi non si può andare. «La generazione politica dopo Angela Merkel deve ora diventare più visibile e assumersi più responsabilità», ha affermato il ministro della Sanità sostenendo che per il futuro è necessaria una nuova procedura per la nomina del candidato cancelliere e per l’elaborazione del programma elettorale.

Se Laschet dovesse essere sostituito da Merz, prenderebbe le redini del partito la componente più tecnocratica e nello stesso tempo più conservatrice del partito popolare. Quella che ha accusato, per intenderci meglio, Merkel di aver spinto troppo in senso socialdemocratico la Cdu, ma che ha garantito nel contempo ben 16 anni al potere alla Cdu-Csu. Un’eredità politica complessa fatta soprattutto di molte luci tedesche e nel contempo di molte ombre europee.

E tra queste ultime non si possono non ricordare le due grandi incompiute europee, come avrebbe detto l’ex cancelliere Helmut Kohl: la mancanza di interventi in materia di difesa e politica estera. L’Ue, nel caso del disastroso ritiro militare dall’Afghanistan e della politica nell’Indo-Pacifico si è rivelata in grave difficoltà, senza strategie e capacità autonoma.

Merkel, ancora una volta leader riluttante dell’Europa continentale, in queste materie sensibili ha preferito non impegnarsi a fondo, usando il tradizionale e poco costoso per le casse nazionali ombrello di protezione difensivo americano, senza provare a lanciare il cuore oltre l’ostacolo.

Un’occasione perduta al pari di quanto fece l’Assemblea nazionale francese quando bocciò, a sorpresa, il progetto fortemente sostenuto dagli Stati Uniti, della Difesa comune europea nell’agosto del 1954. Una bocciatura generata da miopia geopolitica e sogni nazionalisti irrealizzabili che pesa 67 anni dopo ancora come un macigno sul futuro geostrategico dell’Europa.

Kohl, quando passò il treno della storia, seppe prenderlo al volo con l’appoggio del presidente americano Bush senior, rischiando di andare contro l’opinione della Bundesbank che non voleva unificare le due Germanie con la parità del Marco. Ma Kohl si impose e il Marco tra le due Germanie venne cambiato alla pari.

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