Basta partire dalle cifre: solo mezzo miliardo a Apple, appena duecento milioni a Meta. Più che un colpo a Big Tech, sembra che Bruxelles voglia farle il solletico, ancor più se si pensa che la multa ufficializzata questo mercoledì dalla Commissione Ue sarebbe potuta arrivare invece fino al 10 per cento del fatturato globale annuo dei due colossi (fino al 20 in caso di recidive).

Appena un anno fa – ma quel tempo sembra già lontanissimo – la lady di ferro dell’anti trust europeo, la commissaria Margrethe Vestager, aveva morso la Mela con quasi due miliardi di multa; c’era ancora la libera concorrenza a far da bussola a Bruxelles. Gli oligopoli erano considerati un ostacolo e non «grandi campioni» da osannare, Trump (e Musk) non aveva ancora ripreso il potere e viceversa non lo avevano perso commissari di peso come Vestager e Thierry Breton, fustigatore di Musk & co., spodestato quest’autunno, a un passo dal secondo mandato.

Ma i numeri sono solo uno dei fattori nell’equazione della politica. Anche i tempi vanno calcolati: l’attesa della multa è essa stessa un indicatore della multa. Che tardava ad arrivare: era attesa a marzo, dopo un anno di indagini e a valutazioni tecniche già fatte. Ma c’è anche il livello decisionale: la multa ufficializzata questo mercoledì doveva essere «decisa dalla Commissione nella sua interezza», per dirla col portavoce della Commissione.

Se i numeri dicono molto e i tempi altrettanto, il perimetro completo è dato dai silenzi: nessuno ha messo la faccia sull’annuncio della multa, avvenuto tramite nota scritta. È toccato ai portavoce rispondere alle domande dei cronisti, con le quali nessun commissario – né tantomeno la presidente – era a quanto pare intenzionato a confrontarsi.

Tempi trumpiani

Per capire cosa è successo bisogna risalire al 25 marzo 2024, quando la Commissione ha lanciato indagini relative a Google, Apple e Meta, perché sospettava che non avessero messo in campo azioni tali da rispettare pienamente le norme Ue sul digitale, e nel caso specifico il Digital Markets Act. Il “Dma” mira «a garantire mercati contendibili», concorrenziali, «ed equi». A tal fine «regolamenta le grandi piattaforme – Alphabet, Amazon, Apple, ByteDance, Meta e Microsoft – che hanno una posizione tale da poter creare un collo di bottiglia nell’economia digitale». Dopo aver individuato questi sei «gatekeeper» a settembre 2023, Bruxelles aveva dato loro tempo entro il 7 marzo 2024 per adeguarsi ai nuovi obblighi, dopodiché il 25 marzo di quell’anno aveva dovuto procedere. «L’indagine sarà conclusa entro 12 mesi», prometteva.

Ne sono passati 13 per arrivare all’annuncio di questo mercoledì, nel quale Bruxelles attesta le violazioni del Dma da parte di Apple e Meta. La prima «impone restrizioni tali per cui gli sviluppatori di app (e i consumatori) non possono beneficiare appieno dei vantaggi offerti da canali di distribuzione alternativi al di fuori dell’App Store». Per Meta, nel mirino c’è il sistema “consent or pay” (“se non dai il consenso” al trattamento dei dati trasversale tra i servizi “allora devi pagare”). Max Schrems, fondatore di Noyb e simbolo delle battaglie europee per la privacy, nota che «appena il 3% degli utenti vuole annunci personalizzati, eppure col sistema “pay or okay” il tasso di consenso arriva al 99%. Un “tasso di consenso nordcoreano”: è ovvio che non c’è la libertà di scelta che le norme Ue prevedono».

Sia chiaro: le norme Ue sul digitale devono essere applicate e il loro enforcement – cioè la loro applicazione da parte di Bruxelles – non è una opzione ma un obbligo. Se un margine di manovra politica esiste, la Commissione pare averlo utilizzato per evitare il più possibile lo scontro con Big Tech (e con Trump). Le multe avrebbero potuto essere ben più alte, l’annuncio è arrivato in ritardo di settimane (e inizialmente si è temuto che von der Leyen volesse affossare del tutto il dossier). Fino all’ultimo Bruxelles ha dialogato con le aziende e intende continuare a farlo, in nome del fatto che – come spiega il portavoce, anche per giustificare la soglia bassa della multa – «la sanzione non è un obiettivo in sé, ma serve per arrivare al rispetto delle regole».

Diametralmente opposta la reazione dagli States, dove con Trump alla Casa Bianca sia l’amministrazione che i “broligarchi” (da Musk a Zuckerberg) hanno ripetutamente attaccato le regole europee sul digitale. Apple sostiene che la Commissione la abbia «ingiustamente presa di mira» e annuncia: «Faremo ricorso». Joel Kaplan, il repubblicano posizionato da Zuckerberg come chief global affairs officer di Meta, accusa l’Ue di «voler azzoppare le aziende di successo Usa: non è solo una multa, è un dazio». L’allusione ai dazi è tendenziosa: da mesi, la Casa Bianca avverte l’Ue su «ogni azione» che possa «inficiare l’innovazione tech Usa», e a inizio aprile la commissaria Ribera si è sentita dire dal presidente della Federal Trade Commission quanto lui fosse «diffidente» sul Dma e le leggi che «puntano alle aziende Usa».

Nel viaggio americano, Meloni ha sottoscritto che «per il tech serve un ambiente non discriminatorio anche in termini di tasse». Davanti all’attacco frontale trumpiano alle regole Ue, che finora ne hanno fatto una “potenza normativa”, il passetto fatto questo mercoledì da Bruxelles è così cauto da poter apparire un passo indietro. La cautela, e l’intenzione di mostrare che non ci fossero intenzioni anti Big Tech, è stata tale che nessuno ha messo la faccia sulla multa. Ribera e Virkkunen, le commissarie competenti, si sono fatte trovare all’estero e hanno solo rilasciato brevi dichiarazioni. L’accentratrice von der Leyen, che quando si è trattato di fare passi distensivi verso gli Usa ha battuto sul tempo la sua squadra con gli annunci, in questo caso si è eclissata.

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