«L’incontro ha permesso uno scambio approfondito in preparazione del vertice Nato, con particolare riferimento alle spese per la sicurezza collettiva» e al versante industriale, sintetizza Palazzo Chigi. Attraversando il tappeto rosso di Palazzo Chigi, proiettato dritto verso le braccia aperte di Giorgia Meloni, questo giovedì il segretario generale della Nato Mark Rutte è andato a prendersi il consenso del governo sulla sua proposta di aumento delle spese in difesa e sicurezza al 5 per cento del Pil.

Percentuali e scadenze

Per la verità, un consenso di massima era già emerso all’ultima ministeriale dell’alleanza: Rutte ne era uscito con l’intenzione di portare al tanto atteso vertice Nato di fine mese (all’Aia dal 24 al 26) la sua proposta con quel numerino, 5, come etichetta, così da rassicurare l’amministrazione Usa che sul tema fa pressione. Ma le trattative si fanno comunque, sul versante meno appariscente: cinque per cento, ma entro quando? «La mia posizione è che per l’Italia è irrealistico raggiungere il 5 – si schermisce il ministro della Difesa Guido Crosetto – perciò abbiamo indicato un aumento dello 0,2 per cento annuo con uno spostamento della tempistica al 2035».

Pare assodata intanto la formula del 3,5 più 1,5, scomposizione che dovrebbe aiutare i governi a raggiungere la percentuale finale: il 3,5 sarebbe da dedicare alla difesa strettamente intesa, con una percentuale basata sui nuovi obiettivi di capacità concordati in un recente incontro dell’alleanza (difesa aerea, jet da combattimento, droni, personale, logistica e molto altro). L’1,5 per cento all’anno verte poi su investimenti relativi a difesa e sicurezza, tra i quali industria e infrastrutture. Per usare parole di Crosetto, «investimenti non strettamente militari, ma di natura duale».

Sulle percentuali c’è una sintesi quindi; resta da collaudare l’organizzazione dei tempi. Proprio questo giovedì da Praga Petr Pavel, che prima di diventare presidente ceco era stato proprio generale Nato, ha fatto presente che va bene far pressioni, «ma non buttar giù gli europei dal dirupo»; un riferimento al fatto che forse almeno sui tempi gli Usa dovrebbero accettare meno fretta.

E anche da Roma arriva un messaggio analogo: «Secondo me, serve almeno una decina d'anni per raggiungere gli obiettivi di cui si parla alla Nato», ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani, impegnato anche lui sul dossier coi suoi omologhi di alcuni paesi chiave Ue oltre che con Rutte stesso: sempre nella capitale italiana, col segretario Nato, si è svolto un pranzo dei ministri degli Esteri del formato Weimar Plus, ovvero Germania, Francia, Polonia, Italia, Spagna, Regno Unito e Ucraina.

«Ma aumentare i dazi e le spese di sicurezza – ha puntualizzato il vicepremier italiano – sono due cose in contrasto tra loro». Si legga tra le righe: in questi giorni gli europei sono impegnati pure a sbrogliare la matassa dei dazi trumpiani, dunque se si va tanto incontro agli Usa sulla difesa, che almeno non infieriscano troppo sulla guerra commerciale. Di certo c’è che le trattative – anche per l’impostazione che Trump ha dato – si svolgono tenendo presente tutti i livelli (tutti gli spintoni di Washington).

Posizionamento dell’Italia

«La Germania è disposta a sostenere le proposte» di Rutte, ha ribadito da Roma il ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul: rompendo il tabù del freno al debito Berlino si è fatta capofila della svolta. Pure la Polonia, che già oggi raggiunge il 5 per cento, è tra i più spinti sostenitori, come Mette Frederiksen, che fa squadra con Meloni su più fronti; la premier della Danimarca ha persino sfilato il suo paese dal blocco dei frugali per poter sostenere meglio la posizione riarmista. E l’Italia? Il governo Meloni si sta allineando alla posizione di Rutte, che nel suo incontro romano ha fatto leva anche sulla presenza di colossi dell’industria militare proprio nel nostro paese, citando esplicitamente Leonardo.

Del resto in Ue nessuno si è messo davvero di traverso al riarmo, neppure la pecora nera Viktor Orbán, che fa leva sul fatto che l’aumento sia di spese nazionali e non difesa comune. Il leader leghista e vicepremier Matteo Salvini – che fantastica di contemplare anche il ponte sullo stretto nella percentuale delle infrastrutture di sicurezza – usa argomenti simili all’alleato ungherese: «Aumentare le spese per la sicurezza interna a favore degli italiani e per la difesa dei confini sì, gradualmente, ma niente deleghe all'Europa».

Di senso opposto la versione del Pd: difesa sì, ma comune ed europea; in linea con gli argomenti già collaudati quando Ursula von der Leyen ha lanciato ReArm, la capogruppo dem alla Camera Chiara Braga questo giovedì ha detto che «serve un salto di qualità nella difesa europea, non una corsa al riarmo dei singoli stati».

Radicalmente contrari all’aumento delle spese militari si mostrano Movimento 5 Stelle («si parla di cifre folli, e il governo non ha il coraggio di dire che le toglierà a sanità, istruzione, welfare») e Avs («Meloni svende la sovranità italiana al complesso militare-industriale», dice Bonelli; «è la coesione sociale che va difesa», insiste Fratoianni).

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