Con l’invasione russa, molti ucraini sono scappati dal loro paese e sono stati immediatamente accolti da tutti gli stati membri dell’Unione europea. Profughi di nazionalità diversa, invece, non hanno ricevuto lo stesso trattamento. Migliaia di migranti e richiedenti asilo provenienti dal medio oriente sono arrivati al confine bielorusso già a partire dal luglio 2021, quando Alexander Lukashenko ha minacciato di “inondare” l’Ue con flussi migratori di massa e di usare i rifugiati come arma verso Bruxelles, che aveva imposto sanzioni verso la Bielorussia.

Con l’intenzione di raggiungere la Polonia e ottenere protezione internazionale in Europa, molti di questi migranti sono stati bloccati nelle zone di confine per settimane, sia a causa delle «politiche di respingimento» messe in atto dalla polizia di frontiera polacca, sia per la coercizione delle autorità bielorusse nel volerli spingere nuovamente all’interno dell’avamposto dell’Europa orientale.

Tra le autorità di Lukashenko, le agenzie turistiche che promuovevano nei paesi del medio oriente tour con visti turistici in Bielorussia, e i trafficanti di esseri umani che diffondevano disinformazione su quanto fosse facile entrare in Europa, i migranti sono caduti nella trappola. Le autorità polacche hanno preferito trasformare il confine con la Bielorussia in un’altra «giungla di migranti».

In prigione

«Sono arrivato in Polonia dall’Azerbaigian il 9 settembre 2021 attraverso il confine bielorusso. Quattro di noi hanno cercato di entrare in Polonia, ma le guardie di frontiera hanno preso tutti i miei amici e li hanno respinti. Hanno deciso, invece, di arrestarmi, portandomi nel campo di Wędrzyn». Abdulrahman Saeed Qaid Mahyoub è un rifugiato yemenita di 29 anni che attualmente vive all’interno del più grande campo di detenzione militare polacco fuori dalla città di Wędrzyn, a circa 50 chilometri dal confine tedesco.

Eretto nel settembre 2021 e gestito dall’agenzia polacca di sicurezza di frontiera Straż Graniczna, è completamente tagliato fuori dal mondo esterno. È chiuso verso l’interno agli stranieri, ai giornalisti, agli avvocati e alle organizzazioni umanitarie, che non possono entrare senza un’autorizzazione del ministero della Difesa polacco, e verso l’esterno ai migranti reclusi, che non possono uscire. Lo stesso sito ufficiale creato dalla Guardia di frontiera polacca per raccogliere informazioni e fare domanda di visita a uno dei migranti all’interno del campo è confusionario e poco aggiornato.

La struttura, soprannominata “la Guantanamo polacca”, ospita attualmente 321 migranti, di cui 200 con cittadinanza irachena. Sono solo alcuni dei 1.150 migranti detenuti nei campi finanziati dall’Ue in tutto il paese, di cui 540 sono ora ospiti di sei strutture di detenzione preesistenti e destinate alle famiglie, e 610 nei tre centri costruiti a seguito dell’emergenza migratoria sviluppatasi al confine polacco-bielorusso, come quello di Krosno, Odrzańskie e, appunto, Wędrzyn.

Come criminali

La giornalista tedesca Nancy Waldmann è riuscita ad avvicinarsi alla struttura di Wędrzyn a piedi, camminando attraverso i boschi. «I migranti non hanno accesso al mondo esterno», ci racconta descrivendo le abitazioni interne al campo serrate dietro un’alta recinzione di filo spinato. «Le condizioni sono pessime: le persone sono ammassate in piccole stanze, non hanno assistenza medica o legale, e la mancanza di una lingua comune tra migranti e guardie rende il tutto ancora più difficile da gestire». Il 25 novembre 2021, i migranti all’interno di Wędrzyn hanno innescato una rivolta, chiedendo libertà o condizioni migliori.

Quella che era iniziata come una protesta pacifica, ricorda Omar, si è trasformata poi in un assalto incontrollato dei migranti alle strutture. Secondo il dipartimento di polizia regionale di Lubuska, questi ultimi «hanno cercato di sfondare la recinzione, dato fuoco a vari oggetti, lanciato sedie e distrutto telecamere a circuito chiuso».

Wędrzyn ospita migranti provenienti principalmente dall’Iraq, dalla Siria e dall’Afghanistan, che vengono trattenuti in attesa di essere rimpatriati o eventualmente rilasciati per poter raggiungere la loro prossima destinazione. Ma, nel frattempo, cosa succede loro? «Non abbiamo mai ricevuto violenza diretta dalle guardie carcerarie, ma ci trattano come criminali», dice Abdulrahman, che ha deciso di lasciare lo Yemen in cerca di una vita migliore, lasciando moglie e figlia in Arabia Saudita. «Abbiamo continuamente problemi con l’acqua corrente: non ce n’è abbastanza per fare la doccia o semplicemente per averne un po’ potabile». Per i bisogni medici di base, c’è una sola infermiera di emergenza, «non basta per tutti».

Nonostante «continuassero a promettere di farci visitare da un medico settimanalmente», per curare specifiche allergie o infezioni dovute alle «disastrose condizioni di vita che siamo quotidianamente costretti ad affrontare», le guardie «non ci hanno mai dato una possibilità effettiva di scrivere anche solo una richiesta formale di supporto medico». Impossibilitato a incontrarci di persona, vista l’impraticabilità per i giornalisti stranieri di entrare nel campo, Abdulrahman racconta al telefono l’acutizzarsi di problemi di vista nelle ultime settimane. Non potendo accedere alle cure, nei suoi quattro mesi di permanenza le condizioni dei suoi occhi «continuano a peggiorare».

I tentativi di suicidio

Dello Yemen è anche Omar Sheikh Zaid, studente fuggito dalla guerra nel suo paese; proprio come il suo connazionale Abdulrahman, è entrato in Polonia dalla Bielorussia. «Vivere qui sta influenzando la vita futura e l’attuale salute mentale di ognuno di noi». Non c’è struttura sportiva, opportunità di istruzione o attività all’interno della struttura militare di detenzione. «Le guardie raramente distribuiscono vestiti o articoli per l’igiene personale», racconta; bisogna sperare che siano spediti dall’esterno, e poi tempi infiniti per riceverli.

«Non esiste privacy, solo tende per separare chi fa la doccia; c’è una sola lavatrice per oltre 120 persone nel mio blocco, e le stanze» con quattro letti a castello «sono di 12 metri quadrati», troppo affollate: poco è l’ossigeno per respirare. «Non ci viene data nessuna informazione sui nostri casi specifici di richiesta di asilo».

La negligenza delle guardie nel costringere a vivere in uno «spazio condiviso anche con criminali ceceni» ha spinto «alcuni di noi a tentare la strada del suicidio». I detenuti hanno limitate possibilità di comunicare con il mondo esterno: «Ognuno di noi può usare internet solo un’ora ogni due giorni»; in tutto il campo, le guardie «hanno messo a disposizione solo quattro vecchi computer». Abdulrahman e Omar vorrebbero essere considerati rifugiati politici ma vengono trattati come criminali, chiedono trattamenti umani ma sono trasformati in animali, cercano «giustizia e libertà» in un’Europa di fratellanza ma ritrovano solo «prigione e discriminazione».

Cambiare vita per cambiare le cose

Non c’è solo chi è nel centro di Wędrzyn ma anche chi è rilasciato dalle guardie di confine in mezzo al nulla, spesso a una piccola stazione di un villaggio vicino, dove il treno viaggia solo in due direzioni: Berlino o Varsavia. Joanna Liddane è un’attivista sociale che dà sostegno quotidiano ai migranti: cibo, alloggio di emergenza, contatti utili per l’assistenza medica o legale. La sua vita normale lavorativa di restauratrice è cambiata a partire da novembre 2021, quando ha iniziato a fare la volontaria con Partia Zieloni, il partito dei Verdi polacco nella regione di Lubusz.

«Sono stata nel centro di Wędrzyn quattro volte, nessuno sa niente del futuro di queste persone, nemmeno i loro avvocati, quando ne hanno uno». L’aiuto di Joanna è necessario in ogni momento, ma il suo è un impegno che stanca: «Devo lavorare fino all’una o alle cinque del pomeriggio, ho bisogno di guadagnare i soldi per la mia vita quotidiana, ma devo anche pensare ai detenuti, gli ultimi della società». Per lei, guidare ogni giorno almeno un’ora delle strade di campagna fino al villaggio è diventata la «nuova normalità».

La volontaria ha notato un forte cambiamento di approccio da parte della sua comunità: «molti amici continuano a passare dall’attivismo ambientale e animalista a quello umanitario», raccogliendo sim-card per aiutare i rifugiati a rimanere in contatto con le loro famiglie. «Pensate che lasciare le persone in mezzo al nulla sia umano?», chiede Joanna rivolgendosi al suo governo che la lascia sola e «favorisce la violazione dei diritti umani».

Chi è nel campo di Wędrzyn è abbandonato a sé stesso, non può interagire con il mondo esterno: i telefoni personali sono confiscati, nessun traduttore è a disposizione se c’è bisogno di parlare con le autorità. Pochissime persone possono accedere al centro: serve un’autorizzazione formale della guardia di frontiera polacca e del ministero della Difesa polacco, dato che l’intera area è una zona militare. Due giorni è il periodo di attesa, ma può arrivare fino a 7 per visitatori provenienti dagli altri stati membri europei.

I giornalisti non hanno questo diritto: potrebbero visitare il campo solo come privati cittadini. Tra i pochi che visitano frequentemente i migranti c’è Maria, psicologa polacca, specializzata nel trattamento del Disturbo post traumatico da stress (Ptsd). Vive a Berlino e attraversa il confine tedesco-polacco ogni tre giorni per offrire il suo sostegno alle persone bloccate nel campo.

La zona buia

Durante la nostra visita a Berlino, ci racconta che il supporto psicologico è completamente trascurato: «Molte di queste persone sono detenute illegalmente dopo aver già subito torture o violenze durante il loro viaggio verso l’Europa. Molti sono gravemente malati e non dovrebbero nemmeno essere lì». Chi gestisce la struttura «probabilmente non è neppure consapevole di quanto sia dura perché è anche sopraffatto dal lavoro».

La mancanza di coscienza pervade ogni aspetto della vita all’interno del campo. Maria fa l’esempio della procedura per identificare l’età degli uomini all’arrivo: «A chi non ha il passaporto viene attribuita come data di nascita il primo gennaio 2003. Ho notato che c’erano troppe persone con questa data di nascita sul documento. Non poteva essere possibile: non tutti erano maggiorenni».

Tomasz Anisko, deputato polacco, ha cercato fin dall’inizio di garantire il rispetto dei diritti dei migranti ed è entrato nel campo. «Le condizioni sono peggiori di qualsiasi altra prigione in Polonia. Le persone sono tenute lì per svariati mesi senza conoscere la propria situazione legale, lo stato della loro domanda d’asilo, cosa sta succedendo, né per quanto tempo saranno trattenute». Non ricevono alcuna informazione.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, la Polonia ha ricevuto milioni di rifugiati dalla confinante Ucraina. Ciò non ha cambiato l’orientamento del governo polacco verso gli altri migranti extraeuropei in cerca di protezione. «L’ideologia del governo verso i rifugiati in generale, e quelli provenienti da paesi musulmani in particolare, si vede anche da qui», dice il deputato Anisko. «Le testimonianze di ciò che sta accadendo devono essere conservate: arriverà il momento in cui il governo Morawiecki sarà ritenuto responsabile delle sue azioni».

Non esistere per l’Europa

«Solo il 5 novembre, dopo due mesi dal mio ingresso a Wędrzyn, ho potuto iniziare il processo di richiesta di protezione internazionale», racconta Abdulrahman, yemenita. «Ci sono riuscito quando ho ricevuto il supporto di un avvocato, e non è stato certo il campo a fornirmelo. Ho insistito per raggiungere Nomada». Si tratta di una ong polacca basata a Breslavia che fornisce consulenza gratuita sulla documentazione necessaria per avere il permesso di soggiorno in Polonia nella intricata burocrazia polacca.

Abdulrahman ha iniziato il suo «conto alla rovescia di 6 mesi verso la libertà» quando le autorità polacche hanno finalmente preso le sue impronte digitali. Quanto ai due mesi passati a Wędrzyn prima di questo momento, lui e gli altri migranti ignari della loro situazione giuridica non sono mai legalmente esistiti né per la Polonia né per l’Europa. Secondo la legge polacca, infatti, una persona che ha fatto domanda di asilo può essere detenuta per un periodo massimo di sei mesi in attesa dei risultati della sua domanda.

Marta Górczyńska, avvocato per i diritti umani del Migration Research Hub, dice che «quando viene avviata la procedura di rimpatrio – cioè quando la decisione di asilo è negativa e a una persona viene rifiutata la protezione internazionale – il periodo può essere esteso fino a 24 mesi in totale».

La ombudsman (mediatrice civica) polacca Hanna Machińska nel suo rapporto del 24 gennaio 2022 scrive: «Il centro sorvegliato per gli stranieri a Wędrzyn non soddisfa le garanzie di base per contrastare il trattamento inumano e degradante delle persone private della libertà». Il problema più grande e persistente nel campo è la sovrappopolazione. «Lo standard di 2 metri quadrati per persona è inaccettabile».

Nei penitenziari europei lo standard è di 4 metri quadrati. Anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha da ridire sullo standard polacco, che non offre uno spazio vitale soddisfacente. «Le condizioni attuali sono inaccettabili alla luce degli standard minimi per la protezione dei diritti degli stranieri».

Gli eurodeputati

Le critiche arrivano anche dall’interno dell’Unione europea. Erik Marquardt e Sergey Lagodinsky, europarlamentari tedeschi dei Verdi che erano stati invitati insieme alla co-presidente del gruppo Ska Keller da Anisko a entrare nella struttura di Wędrzyn, hanno visto la loro richiesta di visita del centro rigettata da parte del governo polacco.

«Finora non siamo riusciti a ottenere il permesso di entrare nel campo», riferisce Lagodinsky, preoccupato per la «mancanza di standard legali e umanitari» nella struttura militare polacca. «Non è accettabile che i rifugiati siano detenuti nei campi polacchi e che né i parlamentari europei, né i deputati polacchi, né i giornalisti abbiano il permesso di entrare e farsi un’idea della situazione», dice a sua volta Erik Marquardt: rimarca la necessità per la Polonia di «garantire la trasparenza e il rispetto dei diritti umani a tutti coloro che cercano protezione» indipendentemente dal paese di provenienza. Gli europarlamentari chiedono alle autorità polacche di «concedere presto accesso al campo, la situazione non è degna di uno stato Ue dove dovrebbe vigere lo stato di diritto».

Soldi e diritti

Secondo l’Ufficio polacco per gli stranieri, nel 2021 sono state presentate in Polonia un totale di 7,7 mila domande di protezione internazionale, pari allo 0,02 per cento della popolazione polacca (38 milioni di abitanti). Un numero relativamente modesto. L’Ue, attraverso il suo strumento il Fondo per l’asilo, la migrazione e l’integrazione (Fami) ha assegnato alla Polonia durante l’ultima legislatura di bilancio (2014-2020) 115,5 milioni di euro.

La cifra, ci ha detto la commissaria europea Ylva Johansson, «è raddoppiata a 236,87 milioni di euro per il periodo 2021-2027 per coprire gli obiettivi di asilo, integrazione, ritorno e solidarietà». Ma nella regolamentazione Ue attuale non è stato menzionato che questi fondi possano essere investiti in un centro gestito dalle autorità militari di uno stato membro, né che non possano essere utilizzati per tali scopi.

«I fondi sono un contributo sui costi e nella maggior parte dei casi coprono il 75 per cento dei costi totali», spiega la direzione generale Affari interni della Commissione. Questo è stato il caso delle autorità della Guardia di frontiera polacca. Per la gestione dei migranti nel periodo 2014-2020 ha previsto «il miglioramento delle condizioni di soggiorno degli stranieri, condizioni di alloggio rispettose dei principi della Carta dei diritti fondamentali Ue». Non è certo la situazione riscontrata dalla ombudsman polacca a Wędrzyn.

La vita dopo l’inferno

Khaled, programmatore afghano, è uno dei pochi ad aver potuto lasciare la struttura militare dopo tre mesi per ricominciare la sua vita in Polonia. Si trova a Varsavia, e sta ancora aspettando che la sua domanda di asilo venga approvata.

«Quando sono arrivato in Polonia attraverso la Bielorussia, la prima impressione è stata: nessuno dei due paesi accetta la mia esistenza. Il campo di Wędrzyn non è stato meglio della giungla bielorussa: ci svegliavano ogni mattina alle sei solo per divertirsi, non ci davano il tempo sufficiente per consumare alcun pasto e, soprattutto, se ne fregavano che non avessimo privacy in bagno».

Durante il suo soggiorno, Khaled si è tenuto in contatto con una ong che lo aiutava con la burocrazia per la richiesta d’asilo. Dopo tre mesi, le autorità lo hanno rilasciato in una stazione ferroviaria che aveva collegamenti solo con la Germania. Una volontaria della ong lo ha portato a un treno che andava invece a Varsavia. «Anche se le autorità polacche mi hanno trattato come un animale, la mia intenzione era di rimanere qui e di ricominciare la mia vita, di trovare un lavoro e di imparare la lingua». Nelle parole di Khaled il senso di angoscia fa posto alla determinazione di «diventare un cittadino utile della società polacca, ricostruendo la mia dignità di persona», nonostante ciò che ha subìto.

Storia di Misbauddin

«Kurwa, kurwa!». Gli insulti in polacco continuano a rimbombare nella testa di Misbauddin. Lo studente afghano di 17 anni è fuggito dal suo paese l’anno scorso quando c’è stata la presa da parte dei Talebani. Identificato come maggiorenne con la data del «primo gennaio 2003», Misbauddin è arrivato in Polonia seguendo la via dei Balcani, attraverso la Romania. Lì è stato catturato dalla polizia di frontiera polacca ed è stato trasferito a Wędrzyn.

«Sono rimasto lì “solo” per cinque mesi, ma la vita è stata molto dura per me», ci dice quando lo incontriamo in un hotel situato in una piccola città vicino al campo di Wędrzyn dopo il suo rilascio. «Kurwa» è l’insulto ripetuto in continuazione dalle guardie sbattendo i manganelli sulle porte delle celle. Nessuna violenza diretta ma «tanto razzismo che usciva dalla loro bocca ogni volta che chiedevamo un po’ di sostegno su richieste burocratiche e personali».

Quando Misbauddin viene liberato, «non ho niente con me, sono perso in una società che non vuole accettarmi», dice in lacrime. Ora vuol entrare in Svizzera per raggiungere un amico e proseguire gli studi per diventare medico. «Voglio essere in grado di salvare vite e tornare nel mio paese per aiutare chi ha bisogno, i più deboli, quelli lasciati indietro dalla società».

Intanto, come molti altri che si sono spostati dalla Polonia alla Germania, resta sospeso nel limbo: tra una nuova analisi di asilo, e l’impossibilità di tornare indietro. Il governo polacco rifiuta di riaccogliere i cosiddetti “Dublinati” - i migranti di paesi terzi che devono essere rimandati nello stato membro dell’Ue di primo arrivo, secondo il trattato di Dublino - e dà priorità agli oltre tre milioni di ucraini rifugiatisi in Polonia dopo l’invasione russa.

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